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A Como dei piccoli cittadini non interessa un bel nulla

L’ho saputo da fonti attendibili. Il Comune di Como sta lasciando deperire un edificio tra i più poetici e lindi di tutta l’architettura italiana. La ragione è semplicissima. Intende demolirlo per far posto a un edificio a più alta densità. Infatti i vincoli apposti all’Asilo Sant Elia il 12/12/1991 con la famosa legge 1089 del 1939 non valgono più se si trasforma in un cumulo di calce. La Sovrintendenza che manda i suoi funzionari per un condizionatore fuori posto non pare possa intervenire nei casi di lento omicidio. Ma, direte voi equilibrati amministratori: “Non è vero, non ci sogniamo affatto di demolirlo”. Allora vi spiegheremo cosa succede veramente alla prossima puntata. A Como gli architetti di tutto il mondo vengono per vedere Terragni e voi li trattate cosi. L’asilo è incredibilmente chiuso dal giugno del 2019.

Vorrei che vi soffermaste su quello che ho scritto sopra. Ho scritto “più poetico e lindo” non dell’architettura del Novecento, ma di tutta l’architettura italiana. L’Asilo Sant’Elia è piccolo e non può rivaleggiare per dimensioni con i complessi urbani o architettonici del nostro paese, ma se si devono mettere dieci opere piccole insieme, per esempio il casino di Pio IV di Pirro Ligorio, il tempietto del Bramante, la cappella dei Pazzi di Brunelleschi e naturalmente il San Carlino di Borromini nessuno di queste opere somme a me ricorda la luminosità,  la leggerezza, la speranza nell’infanzia e nel futuro del piccolo asilo di Giuseppe Terragni a Como. Nessuno. Fate qualcosa anche voi. Almeno per dirvi, ho fatto il possibile affinché non avvenga questo crimine verso noi stessi, verso quello che noi siamo stati e vogliamo ancora essere. Ve lo racconto di nuovo l’asilo, ve lo foste dimenticato.

Poesia di cemento e vetro

Le fonti di ispirazione viaggiano sotterraneamente per emergere, negli architetti più dotati, in architetture geniali che ne usano alcuni aspetti in maniera imprevedibile in partenza. E’ sempre la magia dell’arte. Dare risposte a contraddizioni che solo l’artista riesce a vivere. Come sentire il gusto della Metafisica, senza aderirvi, come rispondere al paesaggio mitico dell’infanzia popolato da forme geometriche e astratte senza esservene imprigionato, come slanciarsi nella natura senza ad essa assoggettarsi? Terragni ce lo fa capire  nell’Asilo Sant’Elia. Il suo capolavoro. 

Il progetto finale, nasce nel 1936 nell’anno della proclamazione dell’impero e all’apice del consenso raggiunto dal regime in Italia. L’architettura moderna – funestata dal- l’improvvisa morte a gennaio di Edoardo Persico – ha una vetrina importante in occasione della VI Triennale diretta da Giuseppe Pagano che tenta di affermare la presenza ormai diffusa dell’architettura funzionalista nei servizi, nelle case, nei materiali, sin’anco nella tradizione rurale riletta come lezione di funzionalismo ante litteram. Pagano cura mostre, edifica una nuova ala espositiva, promuove la realizzazione del memorabile Salone d’onore di Persico e di quello dei BBPR e segna il punto di massima penetrazione in Italia della nuova architettura. 

Terragni sviluppa la piccola scuola – quattro aule, un refettorio, la cucina e i necessari servizi di supporto – su un impianto che ha già usato più volte: la divisione della pianta in tre fasce. Dispone a sud-est il corpo delle aule, in direzione opposta il refettorio e i servizi comuni, nella zona centrale un giardino e l’atrio. La pianta è iscritta in un quadrato regolare di poco più di 40 metri di lato e viene ruotata rispetto alla maglia stradale per trarre il massimo vantaggio dall’insolazione, ma anche per inquadrare la torre medievale del Baradello molto cara ai comaschi. 

In questo progetto Terragni è interessato a sviluppare lo schema funzionale con un accento naturalistico. La fascia centrale non è la piazza interna di un mistico regime, ma un seme – di aria, di luce, di verde – che va coltivato, capito, liricamente interpretato. Infanzia e natura devono integrarsi, intrecciarsi, interagire l’una con l’altra. 

L’inusuale grande dimensione dell’atrio – uno “spreco” che determina uno degli spazi più belli dell’architettura italiana del secolo – consente quella tensione verso l’orizzontalità che si può sperimentare anche all’interno della Casa del Fascio. L’ambiente è caratterizzato dalla rilassante penombra, dal solaio a lastra che chiude le opposte vetrate a tutt’altezza e soprattutto da quello che si vede oltre la trasparenza del vetro. Da una parte il telaio in aggetto che incornicia le costruzioni sulla via, ma soprattutto il giardino, il verde, la luce, l’aria su quello opposto. La sequenza longitudinale telaio-atrio-giardino si chiude con un portico che ricuce le due braccia dell’asilo e che conduce con una scala al tetto-solarium. 

Nel giardino prende il sopravvento il secondo movimento del progetto: uno slittamento trasversale che fa fuoriuscire la struttura su un lato e, ricacciandola all’interno su quello opposto, permette alla vetrata del refettorio di spingersi fuori e di piegarsi in alto come una serra. È una soluzione mai attuata prima. Dopo aver operato sull’asse longitudinale lanciando un telaio sulla strada e un portico zoppo su quello opposto, lo spazio verde del progetto esercita ora un moto di slittamento sulle pareti che lo delimitano lateralmente. Una tensione tellurica attraversa così il giardino: non solo perché una parete è un pieno – appena solcato da asole verticali e orizzontali – e l’altra una vetrata, ma perché i gambali strutturali che escono da una vengono risospinti dentro nell’altra. La compenetrazione tra dentro e fuori, la tensione tra trasparenza e solidità, tra protezione dal freddo e apertura alla luce, è proiettata dalla natura sull’architettura. 

L’archetipo originale, il blocco compatto, e con esso la rigida divisione in tre fasce, vengono così pervase da una profonda riconsiderazione per le esigenze di una natura assunta a parametro oggettivo (di luce, di aria, di protezione), ma anche di ispirazione. L’idea nata dall’astrazione umana si è ormai misurata con le forze esterne che l’hanno compenetrata. Ne rimane un’esile memoria, quasi archeologica, nelle ricuciture dell’ossatura che tiene le tende apribili del blocco delle aule e nel portico a sbalzo della corte. Segni di un ideale e astratto sogno di purezza. La realtà del vivere sembra essere in questa opera superiore al mito raziocinante. 

Piccoli Cittadini

L’infanzia è trattata con l’attenzione e la cura dell’adulto che non ne imita le movenze; le interpreta con la sapienza del mestiere e con la creatività dell’artista, ma anche con vera partecipazione. 

Se si pensa a un’opera chiave dell’architettura italiana è difficile non riferirsi a quest’edificio che raccoglie in sé tutta la tensione rinnovatrice della nuova architettura nelle sue tre componenti fondamentali. Il programma sociale (un servizio per l’infanzia non nei quartieri alti e ricchi, ma nell’espansione operaia di Como); l’innovazione tecnica e funzionale (le grandi pareti trasparenti, le lame orizzontali per la vista e verticali per la luce, la struttura puntiforme, l’arredo originale suscettibile di una produzione in serie). 

E l’arte. Una compenetrazione tra natura e architettura che introiettando l’essenza luministica e spaziale della prima fa vibrare la costruzione nell’atmosfera. Terragni usa tutti i temi della rivoluzione della nuova architettura, li combina sottilmente con la sua cultura e la sua storia. Fa l’opposto di un’architettura internazionale, non perché insegua una dimensione locale o regionale, ma perché è proprio nel cercare dentro e attorno a sé, nel suo essere un ragazzo di quella città ,di quelle geometrie, di quella luce riesce a raggiungere la dimensione dell’arte. Che si impone da sé e per sé, universalmente. 

Le foto in bianco e nero sono del 1936-1937 e sono qui riprodotte per generosa concessione dell’Archivio Terragni di Como che ne mantiene i diritti

Le foto a colori sono di Dennis Marsico e sono riprodotte per concessione dell’Editore LetteraVentidue dal volume Giuseppe Terragni una Biografia critica, Siracusa 2022

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