A proposito del nuovissimo museo di Diller&Scofidio and Renfro a Londra
Il recentissimo museo di Diller e Scofidio a Londra — una nuova sede del Victoria & Albert Museum che fa parte del progetto “East Bank”, un hub culturale che riunisce università, centri creativi e spazi espositivi nei pressi del Queen Elizabeth Olympic Park — è un’opera importante e spiazzante.
Cominciamo proprio da questo: spiazzante. Per anni abbiamo sognato un’idea di museo in cui l’elettronica diventasse il cardine di una nuova spazialità, di un nuovo modo di attraversare le opere; un museo capace di rappresentare, attraverso il suo stesso corpo architettonico, un cambio di paradigma nella percezione dello spazio. Ebbene, nel nuovo V&A East non c’è nulla di tutto questo — e dire che i suoi artefici, Diller&Scofidio, sono stati tra i pionieri nel pensare il rapporto tra arte, tecnologia e informazione.

Basti ricordare la loro lunga stagione di installazioni sperimentali (ParaSite del 1989, Tourisms: Suitcase studies del 1991 e altri progetti) o la celebre realizzazione Blur Building. Certp The Shed di New York, l’hangar semovente su binari, e la mostra al MAXXI già mostravano che il movimento non era più quello delle informazioni digitali, ma quello fisico, concreto, di putrelle e gru.
Con il V&A East Storehouse — come lo chiamano familiarmente i londinesi — siamo di fronte a una nuova tappa di questo ritorno a un mondo meccanico e industriale. È, letteralmente, uno spazio-magazzino: un vasto deposito organizzato in un susseguirsi razionale di scaffalature metalliche. Un’immagine familiare, se pensiamo ai depositi dell’Ikea o all’esperienza di selezionare un oggetto da acquistare. Ma qui, al posto dei mobili, ci sono i tesori del museo madre: il tempio del design e dell’Arts and Crafts, il Victoria & Albert Museum.

E qui avviene la rivoluzione: non ci sono più sale ordinate per temi o epoche, ma soltanto scaffali. Scaffali che accostano un vaso cinese a una radio degli anni Cinquanta, un frammento medievale a un prototipo industriale. Gli oggetti sono disposti — o meglio assemblati — in una sequenza quasi casuale che si estende per tre piani. Il visitatore, inizialmente, è disorientato da questa disposizione anti-gerarchica, ma presto la sorpresa si trasforma in curiosità.
Superato lo spaesamento, emergono gli aspetti più interessanti. Ci troviamo di fronte a qualcosa di realmente nuovo nel campo dell’allestimento: un ibrido tra magazzino, museo, laboratorio e archivio. Questi mondi si fondono e trovano il loro baricentro non più nell’oggettività dell’esposizione, ma nella soggettività del visitatore.
Quest’ultimo può decidere di approfondire uno o più pezzi, come si fa in una biblioteca consultando un documento antico: può richiederlo, farsi accompagnare in una sala studio e analizzarlo con calma. Archivio, deposito e museo diventano così un unico organismo fluido, in cui la relazione con gli oggetti è dinamica, personale, diretta.
La vitalità del luogo è immediata: anche in un tranquillo lunedì, i visitatori sono numerosi. È lo stesso Gus Casely-Hayford, direttore inaugurale del V&A East, a guidare un gruppo di amici tra gli scaffali. Una figura di grande carisma, che avevo incontrato appena il giorno prima all’inaugurazione di una mostra di El Anatsui alla October Gallery.

All’interno di questo museo-magazzino trovano posto anche due spazi particolari. Il primo è dedicato a un enorme carone di scena che riproduce Le due ragazze che corrono sulla spiaggia di Picasso (1922), un’opera simbolo del suo “ritorno all’ordine”: un contrasto potente rispetto all’ambiente circostante. Il secondo è la sezione permanente dedicata a David Bowie, aperta anch’essa agli studiosi, che possono consultare testi, sceneggiature e costumi del grande musicista inglese.


