Note sulla Biennale di Architettura di Venezia, 2025
antiTHeSi nelle intenzioni dei fondatori Sandro Lazier e Paolo Ferrara era un luogo aperto a posizioni diverse. Questo dibattito avveniva nei commenti a ciascun articolo che erano ricchi di posizioni divergenti. Oggi, al tempo dei social, questo sistema di confronto è poco usato. Pertanto pubblichiamo volentieri un parere molto diverso da quello espresso nell’articolo del suo attuale direttore all’apertura dell’importante rassegna veneziana.
La mostra principale della Biennale Architettura di Venezia 2025, ospitata alle Corderie dell’Arsenale (con il Padiglione Centrale, in ristrutturazione), è curata — sarebbe meglio dire ‘processata’— da Carlo Ratti, con il titolo Intelligens. Natural. Artificial. Collective. Il titolo scelto è più una soglia tematica che una posizione: sembra registrare l’avanzare dell’ibridazione tra tecnologia e ambiente senza proporre tesi, ma un invito politically correct – oggi non così di moda- al multiplo, al molteplice. Si raccoglie e si espone, in un voluto disordine, secondo una ‘prosa’ -più che una poetica- dell’elenco. Come se l’intelligenza — artificiale, vegetale, ambientale, collettiva — si potesse mostrare per accumulo.
Non è la prima volta che un dominio politecnico anglosassone — MIT, Harvard, Princeton, Columbia, ETH, in ordine sparso rispetto alla verità rivelata delle classifiche di Top universities QS— occupa rumorosamente la Biennale e pervade il dibattito architettonico globale. Ma oggi questo dominio di una tecnocrazia tardo-capitalistica sospende sistematicamente il giudizio in nome della neutralità scientifica e del big data, non elabora visioni, ma espone scenari futuribili come se fossero inevitabili. Così facendo, trasforma la Biennale in una showroom del possibile, dove la fantascienza diventa realtà, senza passare attraverso lo spazio critico di una disciplina tanto necessaria quanto fragile.

“Il futuro dell’architettura non è più architettonico”, scriveva Jean Nouvel nel 1980: oggi quella frase, che suonava come provocazione, sembra aver smesso di inquietare. È diventata una premessa accettata, persino messa in scena come forma espositiva.
In un tempo di crisi sovrapposte — ambientale, demografica, geopolitica e digitale — la curatela, adeguandosi ai tempi, non ambisce più ad assumere la responsabilità della selezione, ma è scansione neutrale. E invece questa non architettura è affetta da disposofobia (come le case degli accumulatori seriali), vomita dati, misure, numeri, materiali, frammenti, anche muffe. Sembra reagire senza scegliere, parlare senza prendere posizione.
Proliferano dispositivi immersivi, codici pseudo-naturali, accostamenti posticci tra natura e artificio. In mostra, tanti robot o simulacri fanno cose semplici, ma maluccio. Non sanno ancora caricare una lavastoviglie — cosa che un bambino di dieci anni fa senza pensarci — ma, mentre imitano magisteri dell’artigianato, ci assicurano, un giorno costruiranno case su Marte. Musk permettendo.

Gateway to Venice’s Waterway.Norman Foster Foundation con Porsche
Nemmeno gli avvizziti nomi più noti sembrano capaci di rompere questa inerzia: Norman Foster ripropone un tubo parametrico in lamelle di acciaio da inizio anni Duemila, da cui partono bici d’acqua molto fotogeniche; Kengo Kuma annoda tronchi di alberi crollati per le tempeste con goffi giunti plastici stampati in 3D (Domino 3.0: Generated Living Structure); Philippe Starck allestisce un tendone da design week . Gesti stanchi, decontestualizzati, come figure che si citano da sole.

Eppure, le domande restano aperte. L’architettura, oggi, non può continuare ad essere distante dalla persone. Deve fornire strumenti per sopravvivere, per convivere, per ripensare le forme dell’abitare. Quando tutto viene esposto, nulla viene discusso. La tecnologia è una promessa o una minaccia? Dove sono esposte idee sull’abitare dell’uomo?

“La forma finale è determinata dall’architetta sul cantiere“, Padiglione della Svizzera, Photo: Marco Zorzanello. Courtesy of La Biennale di Venezia
Qua e là, quasi furtivamente , l’architettura si ricorda di essere progetto e di ambire a dare risposte a bisogni umani. Il Padiglione della Svizzera ricostruisce un edificio della pioniera Lisbeth Sachs, una delle prime donna architetta Swiss Exhibition for Women’s Work . Non una retorica, ma un’operazione precisa, costruita, scalata, abitata. Nel padiglione dell’Austria, l’ala dedicata a Vienna è una rappresentazione chiara del termine Collective espresso nel titolo di Ratti, mostrando il costante lavoro dell’architettura residenziale sociale dalla Vienna Rossa ad oggi.

Internalities, Padiglione della Spagna: Alcune foto e disegni di progetti.
Il Padiglione della Spagna ‘ Internalities’ lavora esponendo, nel quadro della cultura mediterranea, materia costruita e aggiornata in forma architettonica. Belle foto, modelli, disegni di architettura, materiali. La sostenibilità è sì processuale, ma si traduce in prodotto per vivere meglio, in spazio di qualità.
Ma in un’epoca in cui l’imperativo operativo è “aggiustare e riparare”, alcuni padiglioni sembrano fraintendere il senso del “fare con ciò che c’è”. C’è chi sceglie di mettere in mostra il proprio stesso cantiere, come nel caso del Padiglione della Danimarca, dove un massetto, le finestre in restauro e frammenti edilizi diventano pezzi da esposizione — un’estetica del provvisorio che ci mostra, forse, solo disfacimento.
Peggio ancora il Padiglione della Finlandia progettato da Alvar Aalto, recentemente recuperato, la cui mostra consiste in una serie di diapositive di documenti di sé stesso passato e del suo restauro, raccontandosi con inefficacia e senza neanche la gioia del feticcio. Nessuna traccia del tempo che passa. Solo un’autorappresentazione inerte, autoreferenziale.
La mostra The Perimeter of Architecture. Amid the Elements, curata Sylvia Lavin e altri nel padiglione del libro progettato da James Stirling, è un lampo brillante: propone una storia ambientale dell’architettura attraverso l’incontro tra libri e modelli. Trattati dimenticati e assemblaggi fisici mostrano come terra, acqua, aria, fuoco — e persino l’etere — abbiano continuato ad agire sul progetto, anche nei margini della disciplina. Un’intelligenza ricca e icastica , documentata proprio laddove l’architettura era assente, diventa qui dispositivo espositivo, e stimolo architettonico. Scrive la curatrice: “In nessun luogo l’allontanamento del libro dalla sua storia naturale si è concretizzato più che a Venezia, nella sua prima età moderna, dove i centri di produzione della carta hanno lavorato di pari passo con un’industria tipografica in piena espansione per alimentare la storica metamorfosi della materia libraria in sistemi sempre più astratti di tecnologie di comunicazione.”
Il Padiglione del Belgio, firmato da Bas Smets con Stefano Mancuso, è una Palm House attiva: sensori, piante, sistemi di regolazione. Non un giardino, ma un’infrastruttura biologica.

Beyti Beytak. My Home is Your Home. Padiglione del Qatar presso Palazzo Franchetti. Un disegno di Hassan Fathy.

Beyti Beytak. My Home is Your Home. Padiglione del Qatar presso Palazzo Franchetti. Jadgal Elementary School / Daaz Office, 2023.
Nella città , tra gli eventi collaterali e i padiglioni nazionali senza casa stabile, le mostre migliori: la mostra del Qatar presso Palazzo Franchetti, sull’architettura araba con meravigliosi disegni di Hassan Fathy e promettenti traiettorie non colonialiste locali.

iagrams. OMA/AMO, .Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Santa Croce. Alexander von Humboldt, Geografia delle piante nei paesi tropicali: le Ande 1805.
Con la mostra Diagrams presso la Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina, Rem Koolhaas costruisce un palinsesto visivo e concettuale sui linguaggi della rappresentazione delle informazioni. Diagrammi, schemi, flussi —celebri elementi distintivi della comunicazione dello studio OMA, emergono come l’esito di un processo non di accumulo, ma di studio e accurata selezione. Oltre 300 oggetti, tra documenti rari, pubblicazioni, mappe , immagini digitali e video prodotti dal XII secolo a oggi, restituiscono la traiettoria culturale e geografica dei diagrammi come dispositivi transdisciplinari. Nove le aree tematiche – Ambiente costruito, Salute, Disuguaglianza, Migrazione, Ambiente naturale, Risorse, Guerra, Verità e Valore – che, organizzate secondo le urgenze del presente, sono allestite in preziose teche.

Migrating Modernism. The architecture of Harry Seidler, Max and Rose Seidler House, Wahroonga, Harry Seidler, Architect 1949 1950, Tessuto di Penelope Seidler 2005.
La retrospettiva Migrating Modernism. The architecture of Harry Seidler, allo SMAC, San Marco Art Centre (non c’è museo senza acronimo pop) è una straordinaria mostra ‘normale’, allestita secondo un ‘normale’ percorso cronologico, con materiali e contenuti di progetto originali notevoli (tra tutti i prospetti tessuti da Penelope Seidler) ci raccontano il lavoro originale, impostato su una tettonica di linguaggio costruito dell’architetto austriaco, che reinterpretò la ‘sua’ Bauhaus in Europa e in Australia.
Se questa Biennale ha qualcosa da insegnare, lo fa non per ciò che mostra, ma per ciò che manca: I big data , se non siamo capaci di interpretare, sono molto preziosi per l’oligopolio delle Big Tech, ma, finora, servono poco all’architettura. Non è più il tempo dei raccoglitori, è tempo di scegliere. Anche grazie al promettente aiuto della nuova intelligenza uomo-computer. L’architettura è fragile, sì. Ma ancora necessaria. E forse proprio perché smarrita, oggi più che mai urgente.
P.S. Non ho fatto in tempo a visitare la mostra sulla nuova Fondation Cartier a Parigi di Jean Nouvel, presso la Fondazione Cini e il premiato padiglione della Santa Sede di Tatiana Bilbao presso la Giudecca: a Venezia si torna sempre volentieri.