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La Vie en Rosa

Hopeless Monster (Night at the museum)

“Di filosofia non è neppure il caso di parlare; si moltiplicano in compenso i trattati d’astrologia: più numerosi delle ragnatele d’un castello in rovina.”
Johann George Hamann, Aesthaetica in nuce

Il rapporto con il nuovo ha il proprio modello nel bambino che preme i tasti del pianoforte alla ricerca di un accordo ancora mai ascoltato, inviolato. Ma l’accordo c’è sempre già stato, le possibilità di combinazione sono limitate, in realtà tutto si trova già nella tastiera. Il nuovo è l’anelito verso il nuovo…Se l’utopia dell’arte si compisse sarebbe la sua fine temporale…Ciò è lampante per l’architettura: se per sazietà per le forme funzionali e per la loro totale adeguatezza, volesse abbandonarsi alla fantasia sbrigliata, essa cadrebbe subito nel Kitsch. Come la teoria, l’arte non può concretizzare l’utopia, nemmeno negativamente. Il nuovo, in quanto crittogramma, è l’immagine del tramonto; solo mediante l’assoluta negatività di quest’ultima l’arte esprime l’inesprimibile, l’utopia.
Theodor W. Adorno, Teoria estetica

Quello che avevamo creduto il regno della rarità, dell’eccezionale e dell’insolito, dell’originale e dell’irripetibile ci si presenta invece con i connotati esattamente rovesciati dell’abbondante, del ripetibile, del comune, del prevedibile e del banale. L’Eccezione diventa la Regola. E la regola non prevede regole, non conosce confini, ignora ogni limite. Si fonda infatti su un accreditato e diffuso principio estetico: quello secondo il quale la sola norma del Linguaggio Poetico è la violazione di una norma contro cui tutti ancora si accaniscono, ma che ormai nessuno conosce. Nell’apoteosi finale della sua ubriachezza, l’universo culturale che si autodefinisce poetico nega l’evidenza della propria sparizione, del proprio suicidio per troppo ottimismo. La qualità pura si è rovesciata in pura quantità.
Alfonso Berardinelli, L’esteta e il politico. Sulla nuova piccola borghesia.


Nel bell’unanimismo (oppure nel circospetto glissare…) che abbraccia quest’ultima scenografia della Hadid c’è qualcosa di sinistro.
Da ogni parte è esaltato il suo rango di opera d’arte ed è in funzione di questo che all’edificio è volentieri perdonato ciò che a un’architettura non si dovrebbe perdonare: il fatto cioè che, troppo occupata a cantare, lei per prima, le sue lodi, finisce per dimenticare la minuscola verità che non è per questo che un’architettura viene al mondo.
Certo, va riconosciuto: i benefici che allestimenti urbani di questo genere apportano a quella che si definisce “l’immagine” della città che le ospita sono evidenti.
Roma, in tal modo, si sistema finalmente à la page con un’opera che accudisce, accarezzandolo, perfino l’ego dell’utente dei mezzi pubblici e gli mostra con bella evidenza come anche lui, che si sposta in tram, possa apprezzare l’avant-garde.
Dire dunque, come sto per fare io, quello che questo edificio rappresenta per chi ritiene che l’architettura debba, in primo luogo, “servire” diventa puro autolesionismo: se non lo fai per invidia, allora sei un passatista ovvero, senza mezzi termini, un oscurantista (ambedue eufemismi per intendere che hai perso, insieme all’ultimo treno, anche la testa e sei ormai un barbone che vive fuori dal mondo e dal suo tempo).
Uniformarsi, insomma, non perché altrimenti per te c’è il bastone, il rogo o l’olio di ricino (che sarebbe ancora una sorte non disprezzabile) ma perché questa appare ormai l’unica cosa che ancora abbia senso e, se non lo fai, sei matto.
Così come accade in ogni campo.

Dato che fuori dall’uniformità, oggi non sembra esserci che il nulla.
Così la critica italiana, che dell’essere aggiornata e del non farla mai fuori dal vaso si fa un punto d’onore, dopo aver segnalato che chi si contenta gode, che è meglio un uovo oggi che una gallina domani, che a caval donato non si guarda in bocca e che ogni lasciata è persa, ha, con l’erudizione e la forza iconoclasta che tutti le riconosciamo, approfondito il suo giudizio con riflessioni come: l’erba del vicino è sempre più verde, ogni scarrafone è bell’a mamm’ soja e il mondo è bello perché è vario.
Dopo queste ponderate considerazioni, e appurato che “a noi chi ce lo fa fare”, la critica non sembrerebbe ulteriormente interessata alla questione del Museo nazionale delle arti del XXI secolo recentemente inaugurato a Roma (con uno di quei deliziosi nomignoli che, come Miuccia, Pigi, Bobo o Papi tengono in sé come uno scrigno prezioso tutta l’Italia d’oggi … Maxxi).

Visto, dunque, che sembrano avere finito, adesso può passare la nettezza urbana, ma prima che arrivi il furgone, è pur sempre il turno di quelli che, come me, frugano nell’immondizia.

Siccome da qualche parte dobbiamo pur cominciare, allora cominciamo dalle parole che qualche tempo fa scrisse Pio Baldi, direttore per i beni culturali della Campania e presidente della fondazione che gestirà il Maxxi nei tempi a venire:
“L’edificio di Zaha Hadid è talmente straordinario, che abbiamo deciso di inaugurarlo due volte – dichiara Pio Baldi – la prima, vuoto come non sarà mai più, animato dall’installazione coreografica di Sasha Waltz. La seconda, nella primavera del 2010, con le opere d’arte che dialogheranno – a volte armoniosamente, a volte per contrasto – con le forme estreme dell’architetto Hadid”.
A volte armoniosamente e a volte, voi capite, per contrasto, perché, insomma, non se ne esce: se non sei vivo, allora, vuol dire che devi essere morto.
Ma se, per ipotesi, questi cazzo di quadri non si volessero fare esporre e opponessero resistenza? In tal caso si ricorrerà alle maniere forti, come precisa in un’altra incantevole intervista lo stesso Pio Baldi facendosi prestare le parole direttamente dall’ispettore Callaghan:
In tal caso li appenderemo al soffitto oppure li stenderemo sul pavimento”.
E quando parla uno che oltre a dirigere presiede, allora bisogna sempre prenderlo sul serio perché alle parole forse seguiranno i fatti.
Piuttosto che incamminarmi verso l’ombra minacciosa proiettata da questa profezia biblica, però, io vorrei volgermi indietro alla prima delle due straordinarie inaugurazioni con cui è stata varata quest’arca che trasporta al suo interno, a due a due, tutte le bellezze e le bontà dello zeitgeist.
Codesto sarcofago che custodisce l’etica e l’estetica dei tempi nostri non è stato inaugurato, così come dovrebbe capitare alle sale espositive, con una mostra, bensì facendo da scenografia a un balletto: http://roma.corriere.it/roma/…

E il sarcofago, come si può vedere, era effettivamente privo della mummia, “vuoto come non sarà mai più” dice il nostro Pio Baldi (e non si può fare a meno di cogliere una nota di rimpianto nelle sue parole…).
Vuoto, perché nulla infastidisse con elementi estranei l’intenso rapporto coreografico tra danza e scenografia (Sasha Waltz ha già usato il Museo di Berlino di Libeskind per una sua coreografia e, siccome non c’è due senza, tre e lei non è mica scema, vedrete che alla prossima toccherà a un qualche sarcofago di Koolhaas…).
Può darsi che il caso abbia giocato un ruolo determinante in questa inaugurazione coreografica, io non lo so…ma so che non poteva esserci un cominciamento più gravido di destino e presago di futuro.
E neanche di più profondamente giusto.
Giusto perché conforme a ragione e adeguato al nomos dell’edificio.
Giusto in quanto espressione del suo carattere più profondo ed eco della sua voce più propria.

Giusto, insomma.

La consacrazione della cosa è dunque avvenuta nel migliore dei modi.
Perché nulla, meglio di un’azione coreografica, poteva consacrare un allestimento scenografico concepito e edificato al fine di ospitare azioni coreografiche.
Qualcuno, se non qui altrove, deve averlo capito.
E ha provveduto.
Dopo aver ascoltato la voce profetica di colui che ha presieduto e diretto Die Weihe des Hauses, ascoltiamo ora la voce più modesta, ma non per questo meno degna d’ascolto, di chi costituisce il punto terminale di quelle profezie: l’orecchio attento e perspicace cui esse sono dirette. Quello dell’utente medio di architettura e mostre d’arte.

Ecco un commento (da internet) che ho scelto per la concisione con cui squaderna tutti quei concetti d’ordinanza senza i quali, sospetto, il genere non avrebbe mercato:
Nel tono usato dall’autore dell’articolo sul Maxxi – ci si riferisce a un articolo nel quale l’autore, molto sensatamente si era permesso, senza per questo mettere in dubbio neanche per un momento “l’artisticità” del malloppo, di avanzare dei dubbi sulla funzionalità dell’insieme e sui suoi costi di gestione – si intravedono le tipiche paure e perplessità che gli italiani abbiamo nei confronti del nuovo. Architetture rivoluzionarie come il museo di Bilbao di Gehry o altre opere di Zaha Hadid, creano in molti (architetti sopratutto), un moto di ribellione a quello che è un modo contemporaneo di intendere l’architettura. Infatti viviamo in anni in cui dinamismo e velocità, grazie anche alla tecnologia, fanno parte del nostro quotidiano. E quindi è giusto che ciò sia trasferito anche nell’architettura. Ma molti architetti sono stati “addestrati” a costruire il mondo con statici cubi o solidi elementari, quindi spesso non capiscono le nuove dinamiche forme delle nuove costruzioni. La gente invece dimostra di apprezzare queste novità architettoniche, e si vede dal successo di nuovi musei e strutture culturali. Quindi io dico che bisognerebbe mettere da parte certe chiusura mentali dovute a limiti “visivi” e a lasciarsi trasportare dalle fluide correnti della nuova architettura che poi sono simili ai nuovi flussi dinamici delle nostre esistenze.

Dal tono e dalla terminologia del nostro soggetto arguisco che si tratti di architetto o aspirante, ma direi che la sua professione non è di primaria importanza, come non lo è la sua competenza specifica.
Ciò su cui desidero indirizzare la vostra attenzione è il fischio di pallottole come Fluido, Dinamico, Velocità, Nuovi Flussi Dinamici… dalla cui emissione, senza neppure lo sforzo di prendere la mira, deriverebbe una conclusione critica che, se non di primo pelo, ha però tutta la tinteggiatura adatta a farla sembrare appena uscita della catena di montaggio.
E, vi prego di notare, tutte quelle parole sibilano come scudisciate dirette a dare una lezione indimenticabile al malcapitato intenzionato a negare che la cosa in questione, insomma, sia un capolavoro dell’architettura, o ci si avvicini assai.

Ora io v’invito a una rapida scorribanda su internet alla ricerca di pareri nettamente contrari.
Temo che faticherete a trovarne.
Io, almeno, non ci sono riuscito.
A parte qualche sporadico (e sempre timidissimo) tentativo di richiamare l’attenzione sul fatto che il presepio è costato 150 (centocinquanta) milioni di euro e che, a quanto pare, gestirlo costerà un fottio, ferma restando la fluidità, si va da concetti come “opera capace di trasformare la nostra idea di architettura” a “opera in grado di tradurre l’immaginazione in immagine e l’immagine in architettura“ da “un modo unico di relazionarsi al contesto” fino all’erotismo puro di “spazi in grado di infondere piacere”.
Quasi sempre ci si estasia sulla bella sensualità dell’insieme e sul flusso di emozioni che ne deriva.
Tutto questo è di estremo interesse e, paragonato alla crociata portata avanti senza alcun timore del ridicolo (ricordo, en passant, il proclama di un personaggio al di sopra di ogni sospetto di competenza come Alemanno sull’abbattimento dell’edificio di Meier e la raccolta di firme per un referendum che avrebbe dovuto farne uno sfacelo) quando si trattò di ergersi contro la follia modernista costituita dal museo dell’Ara Pacis, potrebbe apparire sorprendente, o per lo meno strana.

In realtà non penso che questo cambiamento di temperatura sia spiegato solo dalla differenza dei contesti (il museo dell’Ara Pacis sta un pochino più al centro dell’altro…).
Roma d’altra parte (come Venezia e ogni altra Sacra Città d’Italia tanto quanto l’infimo buco di provincia) ha in pieno centro una miriade di porcherie che sono state costruite, a fianco a fianco a “Intoccabili ed Eterni Monumenti dello Spirito”, negli ultimi decenni da ingegneri, geometri e architetti di ogni risma senza che nessuno ci facesse caso.
Credo invece che a giocare il ruolo decisivo siano proprio le diverse caratteristiche formali dei due manufatti e, ad ogni modo, è proprio l’indagine su questo che dovrebbe, mi pare, interessare una critica degna di questo nome.

Prendiamo le reazioni di un medesimo personaggio (anche lui esente, per così dire, da ogni responsabilità e del tutto privo di competenza in materia ma proprio per questo rappresentativo dell’opinione media, e dei media, intorno a questi argomenti) sulle due architetture.

cco il signor Sgarbi che tuona da “Il Giornale” del 22 aprile 2006 sul progetto di Meier:
Punta Perrotti! Punta Perrotti! Punta Perrotti! E’ questo il grido a cui i cittadini di Roma affidano i loro auspici per una soluzione futura, non troppo futura, che ripari allo scempio dell’Ara Pacis, inaugurata ieri con insolente e beffarda coincidenza con il Natale di Roma…” Il tono, come si vede, è quello dell’appello Dannunziano per riprendersi Fiume in armi, e la soluzione futura sarebbe, ovviamente, quella finale: l’abbattimento, costi quel che costi, di quella che è definita, facendo ricorso a un’immagine potente, “una pompa di benzina texana” (…si noti l’efficace battuta da barzellettiere Berlusconiano, quell’umorismo sul “mericano” che, in quanto tale, o è zio Tom oppure è John Wayne, anche se nella fattispecie è più Newyorker di Woody Allen e sembra il professore con la pipa e le toppe ai gomiti di una Campus novel).

Per quanto invece riguarda il centro di arte contemporanea della Hadid, D’Annunzio se ne rimane al Vittoriale e il tono si fa comprensivo e colloquiale, con (perfino…) qualche venatura di lusinga: http://tv.repubblica.it/…

In questo caso, il noto personaggio televisivo non preconizza alcuna soluzione finale (la funzionalità dell’oggetto andrà semmai “verificata nel tempo”, il che vuol dire che gli si augura lunga vita) ma si premura immediatamente di accettare l’incarico, offertogli à la carte, di consulente per le acquisizioni del museo!

Quest’opera appare anche a lui (che, stando alla Hadid, aveva “scambiato i pilastri per allestimenti artistici”): “a suo modo straordinaria”.
E appare tale perché è innegabilmente “artistica”, semmai è solo il suo esserlo “troppo” a meritare un rimbrotto.
Nel caso del Museo dell’Ara Pacis, invece, le cose non stavano così.
Lì, a fare difetto, era infatti proprio il gradiente di “artisticità”.
In quel caso, infatti, l’arguta definizione del giornalista d’arte fu, come s’è letto, “è una pompa di benzina texana”.

Il fatto è che quel “Nuovo” che nella scenografia della Hadid è solo rappresentato è viceversa presente, e dunque fastidioso, dirompente e provocatorio, nel progetto in apparenza assai più pacato, di Richard Meier.
Ed è questo, e non certo la rappresentazione patinata di un “nuovo” fasullo, scenografico, conformista e sostanzialmente inoffensivo come quello del Maxxi, che fa andare in bestia un filisteo come Sgarbi.
Sarebbe difficile comprendere, altrimenti, la violenza delle crociate contro il progetto di Meier (che certo non difetta di sobrietà e, semmai, è fin troppo compassato) a fronte delle polveri bagnate con cui (non) si è sparato questa volta.

D’altra parte non è un vezzo tardo romantico il girare vorticosamente, degli autori e dei tifosi (anche quelli non del tutto sprovveduti) intorno a una parola come “emozione” (flussi emozionali, sensazioni ineffabili, dinamismi sensuali ecc.).
Questa parola, che per ogni forma d’arte rappresenta una corda sospesa su un abisso, sulla quale occorre saper camminare con capacità che non si acquisiscono certo a furia di sentimentalismo, in architettura diventa una polpetta avvelenata.
Basta leggere i resoconti giornalistici e le entusiastiche cronache dei blogger per verificare fino a che punto ci s’immerga nel vortice delle emozioni: lo “spazio” di questi allestimenti (si parla sempre di “spazio” e questo per ragioni che non credo sarebbero piaciute né a Wright né a Zevi, ma solo perché è parlando di “spazio” piuttosto che di muri, fenestrature, giunti, attacchi e dettagli che si può dare, appunto, “spazio” alle “emozioni”, le quali difficilmente possono appigliarsi al telaio di una finestra e se lo fanno sembrano fuori luogo come quei babbi natale appesi ai balconi delle palazzine) lo spazio, dicevo, è sempre “fluido” e “complesso” e ambedue questi aggettivi non sono usati, com’è sempre avvenuto, in maniera problematica riportandoli alla qualità dell’oggetto, bensì sono ipostatizzati in giudizi di valore: uno “spazio” vale perché è “fluido” e “complesso” e il resto è secondario ma, più spesso, irrilevante.
E infatti non sono riuscito a leggere un resoconto di questa cosa (da Casabella in giù) che non mi spiegasse quanto, questa cosa, è fluida. Diamine, deve essere talmente fluida che l’intelligenza non può che scivolarvi sopra, smettere ogni funzione critica e sciogliersi in apologia idiota.

E’ sorprendente vedere come critici di architettura accreditati vadano in giro attraverso questo stupido accrocco sussiegoso, monumentale, inutile e follemente fatuo senza lasciare al buon senso quel tanto di spago per consentirgli di vedere ciò che hanno sotto gli occhi: che questa dannatissima cosa non funziona e non funzionerà mai se non a furia di raffia e silicone.
Magnifico affare per quello che è costata.
Andrà benissimo per il vernissage e come scenografia del balletto.
Meglio di niente.
Poi ci sarà sempre il buontempone disposto a tirar fuori il Guggenheim di Wright: “I soliti parrucconi! Pure là si disse che non era possibile appendere i quadri!”.
La qual cosa è una sciocchezza perché nel Guggenheim di Wright il rigore geometrico del percorso espositivo trapassa in funzionalità senza neppure una sbavatura, laddove qui non c’è passamano che non sbrachi nel melodrammatico tentativo di mutare ogni stecca in un do di petto.
E, senza offesa per nessuno, mi piacerebbe essere Dio per fare risuscitare un momentino Frank Lloyd Wright e chiedergli cosa ne pensa di questo paragone.
Scommetto che ci sarebbe da divertirsi.
La cosa più rilevante è che non c’è nessuno, proprio nessuno, tra quelli che frequentano studi e facoltà di architettura (disegnatrici, segretarie e dame di compagnia) che faccia a meno, dopo la visita incantata, di tirar fuori le emozioni e i sentimenti.

Si conferma tristemente quello che scriveva Santayana:
L’inclinazione al sentimento e alla suggestione evocativa, di cui è fiero il nostro tempo, a scapito della bellezza formale, indica un’assenza di cultura così reale, ma inconfessata, come quella del barbaro che gozzoviglia in magnifica confusione”.
Al contrario della barbarie autentica, però, questa da cui siamo afflitti adesso si agghinda come un cicisbeo e non riesce a trovare un barlume di autenticità neppure quando si stravacca e, dopo la gozzoviglia, dà inizio alla gara di rutti. Perché a ogni inconveniente si premura di appendere un cartellino: “Trattasi di simbolo, consultare il depliant acquistabile in foyer”.
Perciò siamo qui a prendere appunti.
Questa mia opera – dice la Hadid, la cui genialità trova sfogo anche nel campo del pensiero puro, tanto che “Time” la pone al primo posto tra pensatori più influenti del pianeta – giunge a cavallo tra fluidità e astrazione”.
Non possiamo dargli torto; che si tratti di un’opera che giunge a cavallo salta agli occhi e che per fissarla in mente ci si debba barcamenare tra astrazione e (come dicevamo) “fluidità” è cosa che non vale neppure la pena di sottolineare.
I pilastrini inclinati, per esempio, un pochino sono fluidi e un pochino sono astratti ma, in ogni caso, sono meravigliosamente originali (quasi) e, suppongo, servono a far sì che quest’opera si collochi a perfezione “nell’urbanistica romana”.

D’altra parte, come dice quel raffinato esegeta di Pio Baldi, se non s’inserisce armoniosamente s’inserirà per contrasto e se non è zuppa, allora, è pan bagnato dal che si deduce che sbagliare è impossibile e anything goes, tutto fa brodo.
In tutto questo flusso di sensazioni fluide, però, ciò che va perso, insieme alla forza strutturante della funzionalità architettonica (che costituisce la spina dorsale senza la quale essa non esiste) è la capacità dell’architettura di formarsi e formare il mondo in vista dell’uomo, nonché l’umiltà necessaria a qualsiasi relazione con l’altro che non sia di dominio.

Quel che rimane non è solo inadeguato, ma è anche, in barba alla violenza con cui si pretenderebbe di farlo “esprimere”, incapace di comunicare altro che la sua volontà scenografica. Questo luogo ci si propone con la stessa cortigianeria leziosa di un rocaille rococò (forse non sono del tutto fuori luogo i richiami al barocco fatti da qualche simpaticone…): luogo deputato al vernissage e, sospetto, sostanzialmente pensato per questo.
In tal senso i pilastrini vezzosamente inclinati che accolgono il visitatore non sono semplice fuffa come si sarebbe portati a credere. Essi sono piuttosto l’ululato di riconoscimento del branco e in essi c’è molto peggio che semplice idiozia: c’è la marea montante del vuoto mentale.
In questo genere di produzioni il sensazionalismo non è un optional, ma è ciò che consente di provocare nell’utente oramai anestetizzato quel sussulto emotivo che dà a lui e a chi glielo provoca la sublime impressione di comunicare e di avere accesso all’estasi dell’espressione artistica.
Così l’utilizzatore finale, che non sarebbe in grado di notare alcuna differenza tra un’architettura di Kahn o di Mies e la bella villa che gli ha disegnato il cugino geometra, qui non può fare a mano di riconoscere l’opera d’arte.

Tale riconoscimento però non ha alcuna valenza pedagogica (quell’utente persisterà nell’affidare la sua villa alle cure del primo geometra che gli promette uno sconto sull’accatastamento) ma sarà fondamentale al rendimento commerciale dell’oggetto riconosciuto.
Perché l’arte è una bella cosa, ma il mercato è il mercato.
Allora ecco che l’opera d’arte non può più continuare a essere quello che è sempre stata per secoli, cioè luogo di apertura infinita alla conoscenza paziente e ambito della sua ineffabile e sempre fuggevole concretizzazione.

Deve trasformarsi e diventare tale da poter essere divulgata presso il lettore di rotocalchi e il telespettatore e da lui immediatamente riconosciuta, inequivocabilmente, come Opera d’Arte.
Allora che un’opera d’architettura sia arte senza darlo troppo a vedere (com’è sempre accaduto alle architetture e, segnatamente, a quelle del novecento: Tessenow, Loos, Mies, Le Corbusier, Wright, Aalto ecc.) non è più tollerabile. Potrà, in tutta tranquillità, intendiamoci, non esserlo (in fin dei conti sono cazzi suoi…la privacy…): ma dovrà assolutamente sembrarlo con tutte le sue forze.
Notevole, in quest’ottica, la questione (da qualcuno timidamente sollevata) relativa alla “contestualizzazione” dell’edificio della Hadid.
Intanto va detto che la giuria che ha giudicato il concorso deve essersi regolata, quanto a questo, sulla fiducia. I disegni erano infatti costituiti dal solito impasto di diagrammi scivolosi che sembrano avere passato al frullatore Tamara de Lempicka rimettendola in gara sotto forma di filamenti vagamente luminosi. Quelle scemenze tardo futuriste, insomma, assai appetite da chi, mostrando di apprezzarle, può far finta di trottare al guinzaglio dei tempi.

La relazione era ancora meglio.
Un oscuro decotto in cui galleggiavano, presenze inquietanti, titoletti come Space Vs. Object, Institutional Catalyst, Walls/Not walls, purtroppo immediatamente spiegati a seguire con uno scilinguagnolo concepito apposta per gettare nel panico ogni forma d’intelligenza.
Questa pietanza, condita di frasi fatte e filosofemi da liceale incallito che ha letto la prefazione del libro di testo del fratello universitario e ci campa di rendita fino all’esame di stato, ha, com’era prevedibile, sbaragliato ogni resistenza.
Ma per i giurati tutto, evidentemente, funzionava a puntino, il quartiere Flaminio aspettava da sempre questo manicaretto e sulla via Guido Reni non si sarebbe potuto concepire di meglio.

A me viene da ridere.

Non (tanto) per l’evidente dabbenaggine di chi abbocca quando La Hadid assicura, ammiccando, che “The Center for Contemporary Art address the question of its urban context by maintaining an indexicality to the former barracks” e va a consultare il dizionario per capire che cazzo significa “indexicality” scoprendo che vuol dire esattamente il contrario di quello che dicono i disegni, chiarissimi da questo punto di vista (e quello che allora poteva capire anche un cieco lo confermano oggi i boccheggiamenti di questo pesce mezzo asfissiato tra le baracche militari che sembra non vedere l’ora di tirarsene fuori definitivamente). No, questo fa parte della stupidità dei concorsi fasulli nei quali “se non vince una superstar non abbiamo concluso niente” (sto cominciando a rivalutare gli incarichi diretti: almeno la smetteremmo di fornire un alibi culturale ai soliti noti e ce la potremmo prendere con un politico ignorante…vuoi mettere la soddisfazione?)
Quello che invece sorprende è ancora una volta la codineria ipocrita con la quale ciascuno tenta di giustificare l’ingiustificabile senza assumersi la responsabilità né di quello che dice né di quello che fa.
Un architetto, quando si trova davanti al luogo del suo progetto, non inizia un processo di semplice “lettura”, comincia invece una danza che si muove dialetticamente tra l’avere e il dare, tra il leggere e lo scrivere: va immaginando il progetto e, nel medesimo tempo, va immaginando quel luogo che, pure, ha sotto gli occhi come chiunque altro.

Il progetto, dunque, non è un prodotto della “lettura” del luogo (concezione schematica e infantile che per anni, tuttavia, è stata spacciata da più di un professore come verità incontrovertibile) esso nasce, piuttosto, insieme al luogo stesso, così come questo va dipanandosi (quasi come una pittura su rotolo) sotto gli occhi dell’architetto.
Visione del luogo e visione del progetto devono essere una cosa sola e, in fondo, per un architetto non ci sono luoghi che preesistano ai suoi progetti.

E’ il mondo stesso che, per lui, vede la luce con l’architettura e lui non ne può prescindere in nessun modo. Ed è per questo che nessuna architettura può fare a meno del suo luogo. La capacità dell’architetto consiste nel lasciarli nascere insieme ma di farlo in modo che quel luogo e quell’architettura appaiano una cosa sola.
E’ sempre stato così e, per l’architettura, lo sarà sempre. Per questo le grandi architetture vedono la luce insieme al loro luogo: non prima e neanche dopo.
Per le scenografie, invece, le cose stanno in maniera molto diversa.
E ogni volta sono esterrefatto da come si finga di non vederlo.
Esse, propriamente, non hanno alcun luogo, sono atopiche e non devono rispondere ad altro che alla “immaginazione” dell’allestitore: e quello il loro vero luogo.
La “fantasia” la fa da padrona.
E non si tratta di errore o trascuratezza.
Deve essere precisamente così.
Perché esse “inventano” un luogo che non esiste né mai esisterà se non, appunto, in un qualche “immaginario”; e, d’altra parte, per rispondere al meglio al loro destino, devono proprio “inventarlo” dal nulla oppure vedrebbero insopportabilmente limitato il loro carattere produttivo, la loro poiesis.
La scenografia diventa infatti ciò che è (e, in teatro, sa essere arte) solo quando si libera fino in fondo da ogni remora mimetica o figurativa, cioè da ogni “luogo”.

La differenza diviene lampante nel rapporto con la luce: l’architettura vede la luce e, accogliendola, ne è accolta, la scenografia la flette, piegandola ai suoi fini che sono quelli della rappresentazione.
L’architetto, dunque, conversa con la luce sapendo bene che la luce trascende di gran lunga ogni sua pretesa totalizzante, mentre lo scenografo la usa, illusionisticamente, in vista della sua rappresentazione.
In questa scenografia, per esempio, le lame parallele che corrono in alto sotto i lucernari servono a poco altro che a creare (anche tramite la declinazione della luce naturale) l’effetto scenografico di “fluidità” che è, dichiaratamente, il “tema” dell’allestimento. Gli stessi intradossi di scale, ballatoi e travi, resi luminosi a furia di neon, hanno questo scopo e non importa se si tratta di una trovata degna di un centro commerciale o di un supermercato di periferia: l’effetto prima di tutto.
Perché non importa niente se la forza di un muro, a teatro, è fatta di cartapesta, né se dietro quella piramide c’è il fil di ferro, né muro né piramide sono in questione.

In questione è la reazione del fruitore alla scarica di adrenalina.
Perché la scenografia deve puntare dritta all’effetto e non curarsi d’altro perché sa benissimo che qui non è, ne sarà mai, in questione la vita bensì la sua semplice rappresentazione.
Sta qui la forza dirompente della domanda loosiana sulla nascita e la morte in una camera da letto art nouveau, dietro la quale c’è la comprensione del senso profondo dell’architettura e la consapevolezza e l’orrore per la sua spoliazione, non una semplice idiosincrasia nei confronti degli “arredamenti” di Olbrich o di Van de Velde.
E lo stesso vale per la decorazione identificata come un crimine e per la violenta requisitoria contro i materiali “finti”, tutte cose equivocate spesso come “moralismo”: mentre anche qui la vera questione riguardava il senso dell’architettura, non il suo essere più o meno comme il faut.
Non si tratta di un’architettura meno volgare o più onesta, ma di un’architettura che, in primo luogo, sia tale. Perché l’architettura non è ciò che appare né ciò che ci pare, essa è ciò che è (anzi, se parlasse la nostra lingua, potrebbe perfino dirci “Io, carini, non sono e non sarò ciò che volete che io sia: io sarò quel che sarò…come ha detto di se stesso qualcun altro”).

Questo genere di allestimenti, invece, nonostante le petizioni di principio (del tutto prive di qualsiasi supporto sensatamente verificabile, perché ogni disegno le contraddice e redatte, per lo più, ad hoc e a uso di giurie di concorso sempre assai disponibili) non solo non tengono in alcun conto della struttura urbana nella quale occasionalmente trovano posto ma, addirittura, ne presuppongono la mancanza e, qualora essa tenacemente resista, devono (non per cattiveria o per stupidità, ma solo per poter semplicemente essere quello che sono e vogliono essere) fattivamente contribuire alla sua nullificazione. Devono in altri termini, per sopravvivere come “opere d’arte” e per rappresentarsi come tali, ignorare quella struttura urbana che si è configurata sedimentando lentamente, accettando le secolari trasformazioni dell’architettura, che a sua volta accettava a priori quella struttura. Perché adeguarsi a quel fondale richiede, per forza di cose, un rispetto e una pazienza che annullerebbe l’arbitrarietà nervosa e iridescente di cui esse non fanno solo un vanto ma che individuano giustamente come loro carattere primario.

L’allestimento iperattuale non può prevedere, infatti, alcuna forma di compromesso verso qualcosa che lo trascenda perché esso si pone come elemento di decisione assoluta alla quale tutto il resto si deve adeguare. Perciò è ridicolo mettersi a discutere di “contestualizzazione” poiché, per contestualizzarsi, occorre relazionarsi e per relazionarsi è necessaria disponibilità al dialogo e capacità di mettersi in discussione e di mettere in discussione ogni “stile” preconfezionato per il mercato dell’arte. L’architettura moderna aveva, nella sua rinuncia allo “stile”, fatto della capacità di relazionarsi uno dei suoi capisaldi, forse il più importante, perché, attraverso quella rinuncia, si apriva al possibile e al dialogo con il presente.

Con l’iperattuale si cassa quest’apertura e si capisce il perché: l’individuazione, la personalizzazione, il marchio di fabbrica sono diventati prioritari e non possono essere messi a rischio. Senza quel logo, infatti, non esisterebbero né Zaha Hadid, né Koolhaas, né Libeskind, come non esisterebbero Armani, Versace e Kelvin Klein.
Nessuna contestualizzazione è pensabile se, come primo gesto di ogni progettazione, io devo autenticarmi come “creatore originale” contro quel contesto nel quale fatalmente potrei mettere in gioco la mia stessa originalità (se il mio gioco non fosse truccato…).
La stessa cosa vale per la funzione.

Il Kimbell di Kahn, il museo a crescita illimitata di Corbu e il Guggenheim di Wright funzionano perché, nella mirabile diversità che li contraddistingue, nascono, tutti e tre, “in funzione”. Non prendono a pretesto una committenza intimidita e molle per imporre “creatività” a bizzeffe, essi si costruiscono costruendo una funzione, si configurano concretizzando il loro compito che diviene il loro nome e il loro destino.
Certo anche il loro “stile”, infine, è inequivocabile ma è raggiunto e non imposto.
In questo genere di allestimenti, viceversa, la funzione (nome, cifra e destino dell’architettura e unica sua ragione di esistere) agonizza e muore male, perché tutto è (e “deve” essere, perché ne va della sopravvivenza del loro logo, di gran lunga la cosa più importante, l’unica che li stare sul mercato) finalizzato a nasconderla.
Ciò che il moderno aveva eletto a programma (che una casa o una fabbrica non fingessero di essere un tempio) viene effettivamente negato e si ritorna all’indifferenza beaux-arts nei confronti della funzione. Ma mentre la vecchia accademia, triangolando ancora nell’ambito della triade Vitruviana, riteneva necessario appoggiarsi a un’immagine ancora “architettonica” (cosa che, del resto, le era imposta anche da una tecnica costruttiva ancora tradizionale e, per così dire, “non emancipata”) questi accademici iperattuali si liberano, grazie ad una pratica ingegneristica compiacente e follemente anabolizzata a furia di milioni, anche da quest’ultima necessità.

Quello che essi mettono in discussione non è dunque il fatto che un edificio dichiari apertamente la sua funzione bensì, in modo più radicale, che un edificio appaia tale.
Ciò che essi, in altri termini, negano all’architettura è il suo presentarsi come architettura.
Essa, per giustificarsi come “opera d’arte” deve, nei loro allestimenti, rappresentarsi “libera” da ogni remora miseramente funzionale ma poiché questo è impossibile, la finzione va, almeno, mimata scenograficamente.
Rampe, scale, vetrate, pilastri e travature del tutto insussistenti dal punto di vista funzionale “fluidificheranno” lo spazio e lo renderanno adatto a quel godimento “estatica” che si qualifica come lo stadio iperattuale di quella percezione “distratta” individuata da Walter Benjamin.
Solo che così facendo si violenta il nucleo più segreto dell’architettura e se ne asporta il senso.

La violenza con cui questi stilisti stuprano la costruzione fino al parossismo deriva sempre dal tentativo di strappare l’architettura al suo senso mutandola in qualcos’altro.
Non importa il modo, ciò che conta è tirarsi fuori dalla regola ferrea che impone ad ogni architettura di rispondere alla chiamata della sua funzione come ad un destino.
Questo edificio, lo sappiamo tutti, non è un museo, al più (e nel migliore dei casi) accondiscenderà, molto di malavoglia, ad esserlo.
Cetaceo arenato sulla spiaggia del tempo verrà immesso a tranci nel mercato dell’arte, e venduto a peso al migliore offerente come “istallazione” a scala gigantesca: come tale sarà recepito, commentato e fruito.

* * *

Resta però un’ultima cosa, che sarebbe stata la più facile da notare e che invece i nostri critici sembrano non avere neanche subodorato.
Questo macchinoso accrocco è amaramente, definitivamente, sconsolatamente outdated.

Fuori tempo massimo e ahimè, anche fuori moda (che per un oggetto di haute couture è, direi, fatale). Basta collegarsi alla rete e aggiornarsi sullo stato dell’arte che quest’arca immane ci appare come un relitto spaventoso di epoche preistoriche di cui ormai non siamo in grado di capire bene, se non per proiezione storica, nemmeno le funzioni primarie.
Se, nella massa obesa di Roma, gli si può assegnare un ruolo (ecco un modo per contestualizzarlo…) è quello di funzionare a perfezione come lente d’ingrandimento. Infatti, non si può negare questo straordinario risultato urbanistico-culturale: grazie a questo coso il contenitore dell’Ara Pacis e la chiesa di Meier oggi rifulgono di nuova luce e, nobilmente, giganteggiano sotto il sole romano…l’auditorium di Piano, magari, un po’ meno però, al confronto, ci fa pur sempre la sua porca figura.
Il suo futuro da depliant per gite turistiche, ad ogni modo, è già passato da un pezzo.

I Jetsons sono diventati Flinstones ma i critici d’architettura non se ne sono accorti e continuano, come le scimmiette meccaniche, a battere le mani.
Finirà che, come al solito, dovranno togliergli le pile per farli smettere. Se ne vanno in giro con il loro bicchiere (mezzo pieno) tra i salatini del vernissage in attesa della prima portata e ancora non hanno capito che non ci sono più scorte e le derrate sono esaurite.

Li guardo, con la loro cravatta allentata come quella di Umberto Bossi, e mi mettono addosso la stessa tristezza delle rotonde sul mare a febbraio, quando l’unica cosa che ci trovi sono le cacate dei gabbiani.
Questa cosa puzza di cadavere lontano un miglio, è una carcassa arenata sulla spiaggia, talmente datata che sembra già una bestia estinta e per rendersene conto non è neppure necessario essere esperti di economia politica e neppure di architettura, basta lasciar perdere Minzolini, sintonizzarsi su radio Londra e sentire che cosa sta succedendo.
Tra un po’ si dovranno approntare dei contenitori adeguati per le scorie edilizie (radioattive) di questi ultimi vent’anni di ubriacatura iperattuale i cui costi sono stati spaventosi, dal punto di vista economico, certo, ma soprattutto da quello culturale. Se è già difficile computare iI debito pubblico i cervelli in poltiglia sfuggono a ogni tentativo di censimento: non ci sono numeri che bastino a quantificarli. E’ stata peggio di una guerra atomica, solo che gli architetti l’hanno condotta in salotto a furia di brindisi e tartine al caviale.

E alla fine, vigliaccamente, non gli resta che sperare che a pagare il conto sia qualcun altro.

(Ugo Rosa – 8/11/2010)

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