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Italian(s) Architects: che succede fuori d’Italia?

Ho avuto recentemente modo di sentire Lorenzo Marasso, 36 anni, architetto dal 2004, che subito dopo la laurea ha deciso di mettere il naso fuori dai confini nazionali per completare la sua formazione e preparazione professionale. Ne è scaturito un dialogo che ho trovato interessante per capire cosa succede all’estero e, soprattutto, per informare i tanti giovani architetti italiani che vorrebbero fare la stessa esperienza di Lorenzo.
Di seguito ho riportato le parti di dialogo che ho ritenuto più interessanti.

Sandro Lazier – Quali studi hai frequentato e in quali anni?

Lorenzo Marasso – Innanzitutto volevo ringraziare la redazione di Antithesi ed in particolare Sandro Lazier per avermi dato la possibilità di raccontare le mie esperienze di architetto negli Stati Uniti. Sono molto legato ad Antithesi che leggo frequentemente e supporto come una della poche, libere e indipendenti voci nel paesaggio architettonico Italiano.
Mi sono laureato presso il Politecnico di Torino nel Dicembre del 2004 e, poche settimane dopo la laurea, ero già a lavorare nello studio di Peter Eisenman a New York. Ho fatto poca esperienza in Italia, limitata ad un paio di studi durante il periodo universitario, ma la maggior parte della mia esperienza è americana. Da una parte il mio carattere che ha sempre cercato di evadere i confini regionali e, dall’altro, un interesse per Peter Eisenman e per la sua architettura fin dai primi anni di università hanno fatto sì che, appena ne ho avuto l’occasione, sono andato a lavorare per lui.
Inizialmente ero partito per stare a New York solamente tre mesi, poi la cosa si è trasformata in un impiego a tutti gli effetti e quindi mi sono fermato per più tempo. Ho lavorato per Eisenman per circa un anno e mezzo, dall’inizio del 2005 fino a metà del 2006, a vari progetti, in maggioranza a concorsi ma anche al progetto della Ciudad de la Cultura de Galicia, che è attualmente in costruzione.
Dopo Eisenman Architects sono passato da Asymptote Architecture, lo studio di Hani Rashid e Lise Anne Couture, dove ho lavorato al progetto della boutique di Carlos Miele a Parigi. L’anno dopo, durante l’estate, sono andato a Rotterdam da OMA/Rem Koolhaas e poi nel Settembre del 2008 mi sono trasferito a Los Angeles, dove ho lavorato da Johnston Marklee, Greg Lynn FORM e ora da Amphibian Arc. Nel frattempo ho anche conseguito un Master of Architecture all’università di Yale dove mi sono laureato nel Maggio del 2008.

S.L. -Che mansioni hai avuto nei tuoi vari itinerari lavorativi e che impressioni hai tratto dai vari studi?

L.M. – Il mio obiettivo era quello di diventare un “designer”, nel senso di come lo si interpreta qui negli Stati Uniti, cioè un progettista che è impiegato più nelle fasi iniziali di progettazione e meno in quelle di esecuzione, ed è più interessato agli aspetti formali, espressivi e visivi dell’architettura. Quello che cercavo dopo la laurea italiana era un clima in cui creatività ed espressività personali venissero coltivate piuttosto che viste come eccentricità. Negli Stati Uniti, l’educazione non segue solamente il modello politecnico ma molte scuole lasciano ampio spazio alla creatività dell’individuo come ruolo generatore del progetto. Se da una parte questo si traduce in una spigliata ricerca formale, dall’altra ciò di cui gli studenti americani risentono è l’incapacità di tradurre tutto ciò in forma costruita, un’esperienza che fanno solo dopo, attraverso la pratica. Nel mio caso posso dire di sentirmi abbastanza “ben coperto”, data la mia preparazione “politecnica” assieme a quella “americana”, da cui risulta un buon compromesso tra realtà e finzione.
Mi interessano sopratutto il digitale e le procedure definite “non-standard”, quindi, da una parte, non trovando tutto ciò in Italia, la logica è stata quella di cercare all’estero. Molte delle esperienze che ho fatto, in termini di lavoro e lo stesso Master che ho frequentato a Yale, non le ho né cercate né pianificate dall’inizio, ma sono occasioni che sono affiorate durante gli anni. Mai avrei immaginato che nel 2010 avrei abitato Los Angeles, se mi aveste fatto questa domanda quando, nel 2000, ho iniziato a studiare architettura in Italia.
Per rispondere completamente alla tua domanda, ti posso dire che, come mansione, ho sempre ricoperto il ruolo di “designer”, sia come parte di un team che come “project architect”, con responsabilità variabile o indiretta o diretta sul progetto e verso i partners dello studio. La divisione del lavoro, negli studi in cui ho lavorato, è sempre stata molto fluida e aperta. Negli Stati Uniti, ed in particolare nelle grosse corporazioni, tipo SOM o KPF, le mansioni individuali sono abbastanza nette e chiare ed è necessario che lo siano, quando lo staff supera il centinaio di persone, ed è necessaria inoltre la massima coordinazione per evitare il caos. In un certo senso questi studi lavorano secondo una schema industriale, massimizzando i tempi di progetto che si traducono in costi e quindi in guadagni o perdite per lo studio stesso. I progetti che ne risultano sono ovviamente meno interessanti architettonicamente ma rappresentano esattamente ciò che il cliente ha richiesto, nei tempi stabiliti e soprattutto nei limiti del budget.
Quando le dimensioni dello studio sono invece più ridotte, c’è meno divisione e più integrazione dei ruoli e quindi più visione globale per tutti quanti. Io ho sempre cercato di rimanere in questa seconda categoria, che, secondo me, è più stimolante e meno restrittiva della prima. Lo studio in cui lavoro attualmente, in cui siamo sei in totale, è molto orientato verso la sperimentazione formale ma comunque cerca di non tralasciare l’aspetto esecutivo, che è importante per avere il controllo della riuscita del progetto. Lo studio Eisenman, al contrario, non si spingeva quasi mai oltre lo schematico e molti altri studi qui negli Stati Uniti non hanno né le risorse né la preparazione tecnica per affrontare progetti complessi, quindi si appoggiano quasi sempre ad altri per realizzare le proprie opere.
Ma questo non è del tutto vero e unidirezionale, anche studi di grosse dimensioni si appoggiano ad altri studi esecutivi. E’ la natura dei progetti e le complesse richieste del cliente e la necessaria risposta che uno studio deve formulare a richiedere sempre la concertazione di consulenti e di figure che si occupano di settori specifici del progetto architettonico.
Forse lo studio di Frank Gehry, qui a Los Angeles, è l’unico che ha saputo mantenere intatto il progetto creativo ed ha trovato il modo di adattare o addirittura inventare nuove procedure esecutive in linea con la propria volontà progettuale e il proprio stile e non il contrario.

S.L. -Quando ci siamo sentiti mi hai parlato dell’attuale stato di crisi che ha colpito l’economia mondiale e che ha avuto serie conseguenze sugli studi di progettazione. Puoi illustrarci la situazione attuale degli studi californiani?

L.M. – Lo stato della California è pesantemente indebitato, ma rimane pur sempre la prima economia degli Stati Uniti e la quinta o la sesta al mondo. La situazione non è delle più radiose e i posti di lavoro continuano ad essere ridotti. Il mondo delle costruzioni è stato forse il settore più penalizzato, e questo forse per la mancanza di fondi pubblici destinati ad opere pubbliche. Avevo letto qualche tempo fa sul New York Times che la politica della Cina, in tempo di recessione, al contrario di quella degli Stati Uniti, era stata quella di finanziare opere infrastrutturali con fondi pubblici, dando quindi lavoro all’industria ed evitando così pesanti licenziamenti. Negli Stati Uniti, dove invece è il privato ad investire e lo stato ad applicare il laissez-faire nella maniera più liberale, le leggi del mercato e soprattutto la paura generale degli investitori hanno creato la situazione in cui siamo attualmente.
Per me, come per molti altri giovani laureati, è stato difficile trovare lavoro e una volta trovato soprattutto mantenerlo, e credo che sarebbe stato difficile trovarlo anche in Europa. Quando mi spostai a Los Angeles per lavorare con Johnston Marklee l’idea era di stabilire con loro una collaborazione duratura, cosa che non fu possibile perché un paio dei loro progetti più importanti vennero bloccati dai clienti stessi.
Per fare un altro esempio, lo studio di Frank Gehry ha dovuto ridurre il proprio staff di circa il 70%, dal 2008 ad oggi. Come lui, quelli più colpiti sono comunque le grosse corporazioni o i grossi studi in generale. Quelli piccoli forse hanno risentito di meno proprio per la natura dei progetti a cui lavorano.
La questione economica è sicuramente non soltanto un momento negativo ma anche un momento di rivoluzione dal punto di vista della disciplina dell’architettura. Mi domando dell’identità di molti studi che hanno subito pesanti tagli di organico e del fatto che il loro successo e la qualità dei loro edifici fossero determinati dal grado di preparazione dei propri impiegati, il che si traduce in perdita del patrimonio intellettuale e di esperienza costruiti negl’anni.

S.L. – Malgrado la recessione economica, che solitamente suggerisce al sentimento delle persone maggiore cautela se non addirittura sfiducia, che clima si respira attualmente negli Stati Uniti? Credi che questa crisi pregiudicherà anche l’espressività e la creatività di architetture che negli ultimi dieci anni hanno goduto di un’approvazione pressoché universale?

L.M. – Questo sicuramente sì, infatti penso che, se c’è stato o è in atto un ritorno alle forme semplici e al minimalismo, questo è dovuto al momento di recessione. E’ abbastanza chiaro che realizzare forme curve e non-standard sia più costoso che non forme piane e semplici, anche se il caso del Guggenheim di Bilbao e la stessa storia della Walt Disney Concert Hall, entrambi di Gehry, dovrebbero averci insegnato il contrario. Anche se forse nei prossimi anni si vedranno opere creativamente meno complesse, per lo meno qui negli Stati Uniti, è anche vero che molti stili e caratteri di avanguardia nascono più in ambienti accademici piuttosto che nella pratica giornaliera, che rimane pur sempre salda sui propri canoni e regole. Quindi non penso che l’architettura come disciplina ne soffra poi più di tanto, forse si dovrà attendere qualche anno in più per vederla realizzata concretamente.
Il clima in questo momento è di transizione, molti sono sfiduciati, come dici tu, altri provano la via dell’insegnamento e altri ancora cambiano addirittura lavoro, specie i neo-laureati. C’è da dire che comunque gli americani spesse volte lavorano in campi estranei a quelli per cui hanno studiato o si sono laureati. Siccome il sistema scolastico è diviso in due lauree, una “undergraduate” e un’altra “graduate”, dove possono passare diversi anni l’una dall’altra e dove non è necessario che ci sia continuità di discipline e di studi, fa si che molti ritornino sui propri passi o scoprano carriere e ambizioni diverse. Quindi per vederla in positivo, oltre tutte le difficoltà, c’è sempre qualcosa da guadagnare anche durante una recessione, se non altro in ispirazione.

S.L. – Ti aspettiamo in Italia. A quando?

L.M. – Sinceramente non lo so. Per ora cerco di rimanere qui negli Stati Uniti ancora per un po’. Il clima di Los Angeles, in tutti i sensi, anche quello atmosferico, ma soprattutto quello architettonico, è molto vivo e prolifico. Qui sono nate le avanguardie negli anni novanta, la “digital architecture” e i “Natural Born CAD Designers”, come li descriveva un libretto curato da Nino Saggio della Testo&Immagine che girava tra gli studenti di architettura più indisciplinati. Sono legato a quelle esperienze e penso ci sia ancora molto da imparare da loro.

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