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Storia e Critica

Boeri a Genova

Ai tempi miei dell’università, per essere architetti bisognava spacciarsi per sociologi: il problema da risolvere, prima d’essere quello architettonico, aveva da essere quello umano. Il che sicuramente dava un certo lustro intellettuale alla figura dell’architetto, ma la scioglieva inesorabilmente nella melassa pedante della filosofia da salotto. Iniziava così la deriva storicista che, ignorando le conquiste più intelligenti della ricerca architettonica dei tanti maestri italiani del dopoguerra, i quali costruivano molto e parlavano poco, s’infilava nella retorica dei disegnini e delle citazioni dotte, infine finendo cadavere dentro la pedanteria dei sepolcri rossiani.
Ora che quella triste vicenda è stata derisa e archiviata dai sussulti architettonici di fine secolo, complice anche una crisi economica importante che ha sicuramente tramortito i progetti più coraggiosi, assistiamo ad una nuova genuflessione dell’architettura verso la religione pagana. Si chiama il Verde.
Il verde inteso come termine in senso molto ampio, che va dalla climatologia all’ecologia, passando per l’ambientalismo, il tradizionalismo per arrivare sino al folklore e allo strapaese. Un contenitore capace di tenere insieme praticamente ogni teoria e ogni livello sociale e culturale, come usa fare la migliore politica populista.
L’esempio più evidente di questa deriva imminente è Genova, dove abbiamo assistito dapprima alla demolizione di un capolavoro dell’intelligenza italiana per sostituirlo con un cavalcavia bulimico; da ora con l’approvazione d’un progetto di parco urbano pensato per l’ecologia, il clima e la fuffa color prato, dove è del tutto evidente che la capacità del progettista sta più nella seduzione delle intenzioni che nella sostanza del progetto.
Qui di seguito le intenzioni del progetto e le parole del progettista vincitore del concorso per la riqualificazione della val Polcevera (il corriere della sera):

L’idea era quella di mettere assieme verde, la memoria delle 43 vittime del crollo del 14 agosto, la considerazione della storia del posto — area industriale accanto al porto — e un occhio, importantissimo, rivolto al futuro, facendo di questo parco una zona completamente autosufficiente, grazie all’eolico, dal punto di vista energetico. Sarà «carbon neutral», spiega orgoglioso Boeri: vale a dire che tutto è stato pensato per ridurre, se non azzerare, le emissioni di Co2. Tutte le strutture avranno sistemi di produzione di energia rinnovabile che sarà stoccata in due centri di raccolta, uno dei quali sarà il gasometro in zona Colisa, che sarà recuperato. Il parco sarà disegnato come una serie di fasce parallele ognuna con diverse varietà di fiori e piante. Si potrà fare sport, giocare, raccogliere fiori e frutti, usufruire di spazi per animali. «Il Cerchio Rosso abbraccia un territorio — spiega l’architetto milanese — di ferro, acqua, cemento e asfalto e sarà la memoria di una potente tradizione di altoforni, gru, carroponti, corre attorno ai luoghi più vicini alla tragedia. Li abbraccia senza separarli dal loro contesto, ma anzi legandoli tra loro, salda tra loro le parti separate con un percorso ciclo/pedonale e distribuisce l’energia rinnovabile prodotta dai collettori solari – termici e fotovoltaici – presenti sui tetti degli edifici, dalla Torre del Vento e dalle pavimentazioni piezometriche (che contribuiscono simbolicamente al bilancio energetico) convertendo in energia i flussi che percorrono il nuovo Ponte e il Cerchio. Energia e movimento che confluiscono nella Torre del Vento».
«Ci sarà molto verde, e questo mi è piaciuto tantissimo», ha affermato il sindaco Marco Bucci alla presentazione in palazzo Tursi, sede del Comune. Prevista anche un’installazione chiamata «Genova nel bosco», concepita dall’artista Luca Vitone, composta da 43 alberi, uno per ogni persona morta nel crollo del ponte, ma anche ognuno dedicata a un personaggio ligure protagonista della storia, della cultura e dell’arte, Montale, Villaggio, Germi, Pivano, Strozzi per citarne solo alcuni.”

Lontani i tempi miei della sociologia!
Qui, le uniche persone di cui si parla, a parte quelle standard in dotazione in qualsiasi parco, sono quelle morte, il sacrificio delle quali serve per pompare retorica nella pancia della sirena verde. Per inciso, qui c’era un intero quartiere di persone vive ed attive, socialmente ed economicamente integrate, la memoria delle quali non interessa ovviamente niente a nessuno.
Ora, se si sommano le intenzioni del progetto di Piano e di quello di Boeri – la metafora della nave amica con quella dell’energia buona (la realizzazione delle quali sparerà nell’aria tanto Co2 quanto il quartiere ne avrebbe prodotto in 150 anni) – credo che poche persone potrebbero obiettare alcunché. La banalità delle stesse sarebbero confutabili con difficoltà in un’analisi seria. Ma pare funzionino negli alti pensieri della classe dirigente della politica attuale. Purtroppo, però, le intenzioni non bastano per realizzare un buon progetto, perché occorre la sostanza: l’architettura. E qui di architettura non ne vedo un granché.

Dall’immagine 1 non è chiaro quale sia il rapporto tra la grande circonferenza, il nuovo viadotto di Piano e la trama urbana esistente. Non voglio avventurarmi nel gioco della ricerca dell’idea originale, argomento poco interessante. Ammessa, quindi, l’originalità, se si tratta d’un segno espressivo meglio sarebbe stato privarlo della sua funzione pratica. Costringere i passanti in un lungo percorso circolare che non procura alla percezione del paesaggio nessun vantaggio estetico e pratico mi sembra un formalismo degno della reprimenda d’un qualsiasi corso di progettazione milanese.
Ma non è tutto.

Dall’immagine 2 risulta evidente come la mole del viadotto di Piano invada il paesaggio con la presenza degli enormi piloni che, ravvicinati, ostruiscono la veduta per buona parte della scena. Qualsiasi segno sottostante non può che subirne l’oppressione. Mentre la sistemazione dei giardini, le alberature disegnate lungo le traiettorie della valle e la sequenza degli impianti ornamentali ordinati lungo linee parallele al fiume e alla ferrovia costituiscono una trama che per scala e varietà può competere con la massa banale del cavalcavia, l’inserimento del grande cerchio rosso non fa che ridurre l’efficacia dell’impianto arboreo e aumentare inutilmente la confusione.

L’immagine 3 ripresenta gli effetti dell’errore di scala del viadotto Piano e dell’inefficacia del progetto di Boeri.
Non parlo della torre del vento, altro artificio mediatico che produrrà più energia nella fantasia degli ecologisti che nelle case dei genovesi.
Rimpiangere il ponte Morandi mi sembra a questo punto doveroso.

Così come mi sembra doveroso, visto che la critica operativa a qualcosa dovrebbe servire, abbandonare l’idea di circumnavigare il Polcevera e la sua storia, sistemando giardini e infrastrutture, cercando di ripopolare il quartiere con particolare attenzione ai valori ambientali ma senza farli diventare manichini per luna park occasionali.

Le immagini sono tratte dal Corriere della Sera dall’articolo citato

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