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La Vie en Rosa

Je te veux (per Loos)

Come scrive Kierkegaard: “…alla base della certezza del passato v’è questa incertezza che lo caratterizza nello stesso modo dell’avvenire, questa possibilità da cui il passato non potrebbe mai risultare con necessità” (Briciole di filosofia) e ogni storico (ma anche ogni critico, ammesso che si possa essere una cosa senza l’altra…) scommette, su questo, la sua stessa esistenza.
Se il passato fosse dato una volta per tutte non ci sarebbe storia né critica possibile.
Adolf Loos, come ogni grande inattuale, rimette in gioco il passato e lo rende criticamente “presente” contro l’attuale che al contrario lo annienta, schiacciandolo sulla icona totalizzante di un “presente-presente” dato, una volta per sempre, in tutta la sua apparente, scintillante e frivola, disponibilità. E’ per questa ragione che Adolf Loos poté tranquillamente “non temere di essere giudicato non moderno”. Egli sapeva benissimo che “la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina al fianco”. Per questo sta, come nessun altro, ancora dentro l’architettura pur rimanendo del tutto estraneo alla comunità degli architetti. Estraneo allora come oggi e anzi oggi più di allora.
Per quanto gli architetti, infatti, abbiano costruito anche a lui un monumento, assegnandogli un posto “definitivo” nella storia dell’architettura (e forse proprio per questo motivo…) la sua figura è sempre rimasta fuori dal mazzo di carte con il quale giocano tra loro. Troppo ingombrante ed eccessiva, in realtà, per magazzini culturali così stipati di “contemporaneo” e di “attuale”.
Certo si trova ancora qualcuno disposto a citare le sue parole e, perfino, di tanto in tanto, la sua architettura ma senza mai superare la patina dell’omaggio formale. Troppo duro e rischioso sarebbe giocare davvero il suo gioco in un mondo che pretende di essere “raccontato” dall’architettura e descritto, in quel racconto, come il migliore dei mondi possibili: puro, indiscutibile, “PRESENTE”. Un mondo che castiga l’inattualità come il peggiore dei delitti. E Adolf Loos fu l’inattuale per antonomasia; non perché fosse in anticipo o in ritardo sul suo tempo né perché sia vissuto nel posto sbagliato.
Se fosse morto prima del 1870 oppure nato dopo il 1933 sarebbe stato ugualmente inattuale e inattuale sarebbe stato se fosse nato a Londra o a Chicago invece che a Brno e vissuto a Praga o a Roma e non a Vienna.
Inattuale, Adolf Loos, è ancora oggi, in qualsiasi parte di questo pianeta. Perché la ragione della sua inattualità non consiste in una contingenza spaziotemporale ma in un paradosso esistenziale: egli fu un critico del suo tempo e ne fu, contemporaneamente, l’architetto al punto che in lui l’architettura fu la prosecuzione della critica con altri mezzi (o viceversa). Questo fu e rimane uno scandalo.
Hans Schmidt, altro grande inattuale dell’architettura, scrisse una volta: “Loos è un fenomeno assolutamente fondamentale della nostra epoca” e io, per il poco che conta, tendo ad essere d’accordo con lui. Le mie ragioni prescindono dal mattone e dalla lettera e non riguardano, in fondo, quello che Loos ha scritto e costruito quanto piuttosto quello che Loos è stato e, forse più di tutto, quello che è stato capace di non essere.
In lui l’architettura, nell’atto stesso della consacrazione della casa, si dispone a sparire: con un unico gesto essa viene mostrata e (rimessa a se stessa) scompare. Lo fa ritrovando i suoi fondamentali (che non sono certo le finestre né i cessi né le scale o quegli altri “elementi dell’architettura” che oggi i mestieranti alla moda chiamano così senza avere la più pallida idea di cosa stanno parlando).
La differenza tra gli interni e gli esterni, nelle architetture loosiane, non è che la conseguenza di questo raccogliersi dell’architettura in se stessa e del suo affermarsi come critica dell’attuale e non suo mero commento o, peggio, apologia. E questo accade nella medesima città e negli stessi anni in cui l’architettura come pura descrizione epocale trova, con la Sezession e la Wiener Werkstätte il suo apogeo.
Può sembrare paradossale (e lo è sembrato a molti) che l’architetto che più apertamente afferma la sua distanza dal “moderno” sia, poi, il più radicale nell’opera di “purificazione” dell’architettura da ogni incrostazione ornamentale e archeologica ma una cosa, in realtà, non poteva darsi senza l’altra.
L’ornamento, per Loos, è delitto perché non può esimersi da una componente puramente descrittiva che, al contrario, l’architettura deve rifuggire se vuole mantenere la sua incisività critica. Il luogo del rapporto inevitabile con il passato non è, dunque, quello della superficie dell’architettura ma quello del suo fondamento, non riguarda l’esito ma il principio e questo rapporto pur non venendo mai a cadere rimane sempre aperto al possibile, del tutto privo di qualsiasi velleità archeologica o filologica.
Il passato, per Adolf Loos, non è dunque mai “passato” perché si tesse al presente in trama fittissima.
Nessun altro architetto avrebbe potuto permettersi di progettare un grattacielo in forma di colonna dorica, rimettendo in gioco (letteralmente oltre che metaforicamente) una “Storia dell’architettura” considerata immobile e congelata sui libri di testo. E di farlo senza neppure un brivido di quella febbre storicista che talvolta prende gli architetti facendoli delirare.
Perché anche Loos, come l’angelo di Klee secondo Benjamin, corre in avanti lo sguardo rivolto all’indietro proprio al contrario dei suoi colleghi (iper)attuali che invece, fermamente rivolti in avanti, corrono pazzamente all’indietro.




(Ugo Rosa – 2/4/2018)

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