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La Vie en Rosa

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“La pubblicità sarebbe un po’ incongrua in un mondo che non fosse visibile: se si potesse rimanere non visti e lontano dagli sguardi le nostre difficoltà sarebbero differenti da quelle che sono…”Venite a vedere” è l’invito pubblico più generalizzato…il mondo visibile, una volta iniziata l’esperienza visiva, prende possesso di tutta l’esistenza.”
F. J.E. Woobridge, Saggio sulla natura

Credo che l’architettura occidentale (ciòè, di fatto, l’architettura per come la intendiamo oggi) stia pagando un conto accumulatosi in qualche migliaio d’anni.

Non sorprende che quel conto sia salato.
In Occidente si è sempre sopravvalutato il ruolo che l’architettura gioca nell’ambito delle arti figurative e, inversamente, il ruolo giocato dalle arti figurative nella genesi dell’architettura.
Questo doppio equivoco ha prodotto conseguenze delle quali perfino il più miope (l’aggettivo è scelto oculatamente…) tra i propugnatori delle bellezze del “Nuovo” dovrebbe prendere atto.

Nonostante le chiacchiere sullo spazio (e sulle sue presunte implicazioni esistenziali) quest’ultimo è sempre stato posto sotto il dominio della visione ma, in particolare, della visione prospettica.
Spazio è stato sempre sinonimo di “Spazio Visivo” e quando gli architetti ne hanno cantate le lodi l’hanno sempre fatto in funzione dell’occhio.
E’ l’occhio che esplora il visibile e, tutt’intorno, ne saggia le potenzialità cinestetiche per un corpo che, dal punto di vista dell’architettura, ne è solo l’appendice.

Seguono, in carovana, i sottoprodotti intellettuali; le metafore letterarie e le architetture “a tema” (edifici come “boschi” “scheletri”, “rose del deserto”, “nuvole” etc.); sempre posti sotto l’egida della visione e definiti, con metafore eminentemente oculari: “figure” letterarie e retoriche o “immagini” mentali.

Che un’immagine valga mille parole è diventato un luogo comune, tanto ripetuto quanto poco pensato.
L’occhio ha smesso di essere l’utile strumento del corpo e ha fatto del corpo il suo, talvolta sgradito, bagaglio.
L’occhio vuole la sua parte, e va bene… ma quella parte è decisamente la parte del leone e, grazie alla globalizzazione, si avvia a diventare un monopolio.

Possiamo immaginare una umanità futura non udente, priva di motilità, anosmica o anestesica ma immaginarne una non vedente, così stando le cose, ci è praticamente impossibile. E’ ad occhio che misuriamo lo spazio e perfino il tempo e la lingua, docilmente, ne dà testimonianza: in inglese watch è “orologio” ma è anche “osservare”.
Il risultato di tutto questo, mi scuso per il gioco di parole, è sotto gli occhi di tutti.

L’occhio ci dona meraviglie, ma se le fa pagare.
Tra gli organi sensoriali ha il comportamento più capriccioso ed è il meno disposto ad assoggettarsi al pensiero.
Toccare o annusare sembrano collegati al cervello (pensante) da una cinghia di trasmissione brevissima ed estremamente solida che invece nel caso del guardare e del sentire (nel senso di to hear, non di to feel…) diviene più lasca.

Si dice che guardare non equivalga a vedere e sentire ad ascoltare.
Può darsi.

Però l’ascolto ha a che fare con il linguaggio, strumento principe del pensiero, molto più di quanto vi abbia a che vedere lo sguardo.
Mentre l’orecchio, insomma, pascola quotidianamente tra le parole, l’occhio pratica, per antica tradizione (accentuata adesso dalla caduta a precipizio della comunicazione scritta) il cannibalismo su larga scala.
Il suo territorio di caccia non ha mai avuto confini linguistici ma men che meno ne ha oggi.
Tutto ciò che gli capita a tiro è per lui una preda, sta al vertice della catena alimentare e divora ogni cosa.


Nello stesso tempo sembra consegnare l’universo alla alterità, confinarlo nella dimensione dell’“altro”.


Tatto, udito, olfatto, rimettono l’altro a te stesso lo riconducono, per così dire, all’intimità. La loro traiettoria è centripeta. L’occhio invece pratica l’apoteosi della estroversione.


Tutto vi appare centrifugo, in fuga (mai termine più appropriato) prospettica, verso un orizzonte dal quale il corpo è escluso.
Anzi, quando lo “vediamo” (per esempio allo specchio o anche solo ne osserviamo una parte osservabile) perfino il nostro stesso corpo ci diventa estraneo Goethe ha scritto:

 “La grande e altisonante massima “Conosci te stesso!” mi è sempre parsa sospetta, come un’astuzia di preti segretamente in combutta per confondere l’uomo con pretese irrealizzabili e deviarlo verso una falsa contemplazione interna. L’uomo conosce se stesso nella sola misura in cui conosce il mondo. Perciò negli anni maturi, ho sempre attentamente osservato fino a che punto gli altri potessero conoscermi, per venire più in chiaro di me stesso e sulla mia natura, in loro e su di loro, come in altrettanti specchi”.


E più tardi rincarò la dose:

“Io affermo che l’uomo non può mai considerarsi puramente come un oggetto. Gli altri mi conoscono meglio di quanto io non conosca me stesso”.


Magnifica riflessione, certo.
Ma il fatto che parli di Augenmenschen (Uomini dell’occhio) usi la metafora dello specchio e dello sguardo e non si riferisca mai all’odore, al sapore e men che meno all’ascolto degli altri la dice lunga sulla sua visione del mondo, che è nella sostanza quella che ha informato la cultura occidentale.
Perciò lo sguardo, rassegniamoci, è anche ipocrita.
O perlomeno è bugiardo.
Traveste da propensione verso l’altro una sovrana indifferenza per tutto ciò che non sia l’ego del suo portatore e la metafora dello specchio usata da Goethe si rivela come l’epitome di questo atteggiamento: l’altro come puro riflesso di se stesso.



(Ugo Rosa – 8/1/2018)

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