I critici sono come gli eunuchi di un harem: sanno come si fa, lo vedono fare tutti i giorni, però non sono capaci di farlo… (Brendan Behan)
Govedì 30 maggio Attilio Terragni è stato ospite nel mio studio di Alba.
In quella occasione mi ha fatto dono del suo libro dedicato a Daniel Libeskind, edito da SOLE24ORE cultura.
Il testo, ricco di immagini, presenta alcune parti importanti che illustrano la posizione dell’architetto nei riguardi della teoria architettonica sviluppata in questi ultimi trent’anni.
Tale teoria, diventata per questo autore argomento di dibattito internazionale dopo l’apertura del Museo Ebraico di Berlino, risulta particolarmente interessante nei passaggi che osservano la sua relazione con il movimento decostruttivista, di fatto venutosi a formare alla fine degli anni ottanta con la mostra “Deconstructivist Architecture” organizzata a New York nel 1988 da Philip Johnson, ma a cui nessuno dei partecipanti dichiara oggi di aderire.
Libeskind, considerato indiscutibilmente tra i maggiori architetti contemporanei, rispetto agli altri suoi celebrati colleghi è quello che ha destato le maggiori perplessità della critica e degli studiosi, in particolare per il suo segno espressivo ritenuto manieristico e formalmente invariato nel tempo.
In questo libro, Attilio Terragni, usando parole virgolettate – e quindi riferibili all’architetto commentato – cerca di portare l’attenzione sulle intenzioni e sulle finalità delle opere descritte, più che sul loro esito formale; più sulle tonalità espressive tipiche della musica, che in fondo fa tutto con sette note e qualche variazione tonale, che non sull’evidenza del panorama gestuale dell’architettura di Libeskind.
Il tema affrontato, e pilastro della teoria, parte dalla considerazione che il valore collettivo dell’architettura è conseguibile mediante la proposizione della sua valenza simbolica, rintracciabile nella sua inevitabile dote caratteriale; qualità, questa, priva di fisicità e per questo chiamata invisibile: “Si tratta, quindi, di sapere se il valore unico e irripetibile del nostro rapporto di adattamento con l’ambiente, con la fisicità, la storia e la materialità delle cose che ci circondano, si possa ripresentare nell’architettura come un orizzonte condiviso e, soprattutto, con una forza paragonabile a quello delle società antiche. Con un balzo storico di tremenda efficacia didattica, studiato con il rigore di un matematico e con la sistematicità di un musicista, Daniel Libeskind ha risposto a questa fondamentale esigenza reintroducendo nella progettazione il tema dell’invisibile…”
Non a caso, per chiarire il concetto di carattere, e degli strumenti idonei per conseguirlo, si prende a prestito la musica: “In un istante la musica crea una nuova atmosfera. I grandi edifici fanno lo stesso, evocano uno stato d’animo preciso dal momento stesso in cui si varca la soglia. Come un brano musicale, lo spazio ha una struttura, una voce, una tonalità.”
Importante, quindi, per l’architettura di Libeskind, è la sua preminente connotazione spaziale che, nelle intenzioni rivelate nelle parole dell’autore, assume la caratteristica del linguaggio musicale.
Ora, è noto come, tra tutti i linguaggi, quello musicale sia il meno compromesso con la possibilità di avere un senso per poter essere apprezzato. I brani musicali non hanno un significato riferibile alla razionalità di un pensiero compiuto. Spesso si tratta di sensazioni che mettono in moto direttamente il nostro complesso emotivo, senza necessità della traduzione interpretativa del linguaggio parlato, in cui la presenza di senso e significato è imprescindibile dalla sua efficacia comunicativa.
Questa è la ragione principale per cui si può affermare tranquillamente, ed in questo caso dando ragione, in una sorta di giocata a tre sponde, ai suoi più strenui detrattori, che le architetture di Daniel Libeskind non hanno senso. Soltanto che costoro, di questa affermazione, non sanno cogliere proprio quel senso di cui vorrebbero esibire l’assenza nelle opere da loro criticate.
Ciò che riguarda il senso delle cose, spesso alimenta preconcetti fragili e instabili sui quali è rischioso fondare i propri ragionamenti speculativi.
Ciò che a volte ci appare come insensato, privo di significato, senza riferimento coerente con il contesto, parlando di architettura, se esperito fisicamente, se ascoltato, per usare un riferimento musicale, può mettere in moto sensazioni che vanno oltre la coerenza formale; che vanno oltre il senso del costruito e del costruire ed entrano inevitabilmente in una dimensione poetica. In fondo, gli architetti non progettano semplici costruzioni ma, se dotati di sensibilità artistica, progettano le emozioni e sentimenti che vivono al loro interno. In fondo gli architetti veri progettano vite.
E Daniel Libeskind è uno che in alcuni casi c’è riuscito.
Grazie ad Attilo Terragni per il suo libro efficacemente esplicativo.