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La Fenice, com’era e dov’era

Finalmente è stato ricostruito il teatro della Fenice a Venezia. Come era e dove era secondo l’indicazione dell’ex sindaco Massimo Cacciari. L’inaugurazione della nuova Fenice è stata un gran successo e non poteva, in una società strutturalmente conservatrice come la nostra ,essere che così. Tutti i mezzi di stampa hanno esaltato la bellezza del teatro ritrovato. E così, consumato tra la contentezza di tutti il misfatto, a noi poveri architetti non resta che qualche amara considerazione.
Premettiamo subito e a scanso di equivoci che non siamo affatto contro la riproduzione di opere del passato, tali e quali erano. Noi che predichiamo la simulazione come uno strumento conoscitivo e la applichiamo al cyberspazio, riconosciamo alla copia più vera del vero un certo valore, se non altro a fini conoscitivi. Semmai ci meravigliamo che a farsi paladini della simulazione siano proprio i conservatori, coloro che predicano l’autenticità, che non esitano a incolpare la tecnica di ridurre tutto a immagine e a simulacro, scomodando per questo Nietzsche, Heidegger e le fenomenologie servite in tutte le salse. Ci sono casi, del resto, che non rimane altra strada, per avere una migliore conoscenza del passato, che riprodurne le opere con modelli così simile al reale da sembrare reali ovvero conservarle anche a costo di renderle pallidi simulacri di se stesse. Si è ricostruito nel 1986, per esempio, il padiglione di Barcellona di Mies a Barcellona, e mi sembra, tutto sommato, con buoni risultati. La casa Schroeder ad Utrect di Rietveld è a tal punto un monumento di se stessa che ci si può entrare solo a piccoli gruppi e calzando degli speciali soprascarpe. L’importante però è che sia sciolto l’equivoco – e nel padiglione di Mies e nella casa di Rietveld, in verità, ciò non avviene- che ciò che noi vediamo non è l’originale ma un oggetto simile privato di vita ovvero, interpretato, anche se accuratamente, da un ricostruttore che in tutti i casi dubbi ha usato la propria cultura, la propria immaginazione e spesso la propria personale fantasia. Insomma i suoi pregiudizi. In Italia di riproduzione del passato, dichiarata e a fini didattici, purtroppo se ne fa poca. L’unico museo di questo tipo, con magnifici modelli e calchi, che riproducono alla perfezione oggetti scomparsi o situati in lontane realtà geografiche, fu voluto e realizzato dal fascismo ed è il Museo della Civiltà Romana all’EUR. Ed è triste, se non imbarazzante, vedere che i nostri musei non sono neanche all’altezza di questo del ventennio, con la loro scarsa e nulla propensione alla didattica cioè alla chiara ricostruzione, cioè interpretazione (d’ora in poi adopererò i due termini come sinonimi) di ciò che è stato.
La riproduzione tale e quale –diciamolo chiaramente- è in certi casi, l’unica soluzione. Pensiamo ai capolavori distrutti dai terremoti , quali quelli in Iran proprio nel dicembre 2003, o a brani di città distrutti durante le guerre, valgano per tutti i centri storici tedeschi nella seconda guerra mondiale. O anche a architetture notissime, quali il Colosseo, che oramai sono più l’opera dei restauratori che si sono succeduti nel tempo che dell’architetto che originariamente li concepì. Senza ricostruzione, purtroppo, non si dà memoria nel senso che ogni vestigia prima o poi diventerebbe polvere. E l’idea del monumento che dura eterno è puramente metaforica, nel senso che nulla senza restauro e manutenzione durerebbe più di tanto. Falsificare, come sanno le signore che con sempre maggior frequenza si sottopongono a numerosi interventi di ricostruzione, restauro e implementazione, può essere necessario. Ma proprio perché può esserlo, è bene adoperare gli strumenti dell’inganno con grande intelligenza e accortezza. Cioè senza quelle infantili fiducie, tipiche della nostra cultura da soprintendenza, che trasformano il falso in un giocattolone alla Disneyland e che denunciano solo la scarsa cultura di chi crede che il vero più vero del vero sia alla fine vero e non un abile simulacro ovvero un modello, una ricostruzione, un inganno con il quale confrontarsi.
Coloro che si occupano di restauro, dovrebbero mettere sulla loro scrivania l’immagine della mummia di Lenin nella Piazza Rossa o di Mao a piazza Tien An men. E’ ciò che meglio rappresenta lo spirito di chi cerca di fermare il vivente al dove era e come era. Prima riduce l’organico in inorganico, togliendogli la vita; poi, per preservarlo, lo mette in una teca di cristallo magari progettata da un architetto moderno ( nel caso di Lenin, la bara era di Melnikov), e infine in un edificio reliquario da destinare alla venerazione del pubblico.
Oggi per fortuna non tutto si mette ancora in teca. Ma intorno a troppi monumenti cominciano a vedersi vetri protettivi, cancellate e recinzioni. Come accade alla gran parte delle vestigia romane chiuse in gabbia per ventiquattro ore su ventiquattro. Oppure, come nel caso della nuova galleria Colonna a Roma, durante le ore notturne. Motivi di ordine pubblico? Certo ma anche di feticismo di chi oramai crede che il reperto debba essere reso oggetto di contemplazione, sottratto alla confusione, al caos, insomma alla vitalità disordinata dell’esistere.
Trasformatisi in grandi sacerdoti del culto del passato, i tecnici della conservazione fanno di tutto per nascondere che alla base del loro agire vi è una feticizzazione del falso. E a tal fine inventano un linguaggio specialistico, tecniche specialistiche, lauree specialistiche e si appoggiano a una pseudoscienza anch’essa specialistica con convegni che sembrano cenobi di alti studi di fisica quantistica. Non ho mai potuto fare a meno di essere stupefatto da quanta cultura sembra occorrere per ricostruire il colore di un intonaco fatto da un capomastro. E con risultati che lasciano allibiti. Non sono uno specialista ma francamente mi stupisco che a Palazzo Farnese il Sangallo , che era un classicista, si sia dato a esperimenti informali nella collocazione dei mattoni o che vigorosi maestri di cantiere abbiano accettato di eliminare ogni contrasto tra finestre e sfondo come è accaduto a Palazzo Chigi. Mi consola l’idea che con la stessa facilità con la quale gli illustri luminari giurano che l’intonaco fosse in un modo, dopo qualche anno, sempre sulla base di studi inoppugnabili, cambiano idea. E così , per esempio, Roma in pochi decenni si è trasformata da una città dai colori caldi, a una dai colori pastello stile Holly Hobby, a una color del cielo che rassomiglia più a una città asburgica che alla patria di una cultura carnale e barocca. A nessuno viene in mente che forse il segreto di ogni città consista nel non avere piani del colore, nel cambiare continuamente i propri lasciandone la scelta al buon senso degli abitanti? E che la ricchezza di una piazza consiste nel fatto che a un edificio recentemente dipinto gli se ne contrappone un altro oramai degradato e, magari, un altro ancora con colori oramai passati di moda? Si certo, a qualcuno sarà venuto in mente. Ma allora , si obietterà, se si annulla l’aura sacrale dello specialista, di cosa potrebbero vivere gli specialisti?
Per carità, non che ce l’abbia con loro. Anche loro servono. Ma tutti sanno che in discipline dove l’aspetto estetico è predominante non si possono lasciare i tecnici in balia di se stessi. Affidereste mai la traduzione di una poesia a un traduttore ignaro di letteratura? Giammai, distruggerebbe, banalizzandolo, ogni verso. Molto meglio affidarla a un poeta, anche se balbettante nella lingua straniera: come per esempio è successo a Quasimodo con le liriche greche. Ricordo che anche per l’Iliade si diceva: meglio una bella infedele che una brutta fedele. Insomma amare e reinterpretare è tradire e il tradimento esige competenza: in architettura Carlo Scarpa lo ha dimostrato in modo sublime. Provandoci in modo inconfutabile che è molto meglio uno Scarpa infedele rispetto ai mille restauri disgustosi che le nostre soprintendenze ci propinano.
Le nostre città, affidate a funzionari tecnicamente preparatissimi – si fa per dire- ma formalmente analfabeti, sono piene di scempi. Il dove era e come era, spesso vuol dire solamente mettersi in mano a mummificatori dilettanti. Che non hanno il senso del valore storico ed estetico e non sanno orientarsi di fronte a due problemi, che apparentemente appaiono semplici ma che solo una radicata cultura può risolvere. Il primo consiste nel fatto che una architettura è un’opera che nel tempo è soggetta a continui rimaneggiamenti, spesso per il meglio, e quindi decidere il com’era non è affatto scontato. Serve un giudizio cioè una assunzione di responsabilità e un riconoscimento di valore. Il secondo consiste nel fatto che molte volte le architetture sono sbagliate e accettarle come erano e dove erano è un errore. Ciò vale sia in senso formale: la facciata del Maderno per San Pietro era un orrore e bene ha fatto il professor Sandro Benedetti a darle una profondità che forse non ha mai avuta. Sia in senso funzionale: gli oggetti devono essere usati e non si vede perché debbano essere accettati come erano e dove erano. Ma l’uso cambia le relazioni, cioè in fin dei conti la forma e questo problema non può non essere assunto come un dato, anzi il dato principale, dal restauratore. Pena la riduzione della massa muraria, come avviene nei centri storici, a un involucro senza senso di nuove attività che dell’antico stravolgono i nessi.
Torniamo alla Fenice. Era giusto rifare un modello 3D del vecchio teatro talmente reale da sembrare vero? Forse dal punto di vista politico. Non certo per il valore intrinseco dell’edificio. Non era un granchè e, se si fosse perduto, la nostra civiltà non ne avrebbe risentito. Crediamo, inoltre, che Venezia con un nuovo teatro autenticamente moderno si sarebbe arricchita. Ma la Serenissima non ama l’architettura contemporanea e in tempi diversi ha rifiutato di ospitare un buon progetto di Le Corbusier e un magnifico palazzo di Wright sul Canal Grande. Cosa si può augurare a una città così sprecona, che si ammanta di storia ma non ha saputo sfruttare due splendide occasioni che la storia le ha offerto? Nulla, solo che non continui a farsi male con le sue stesse mani, tra gli applausi dei conservatori che credono di stare nel mondo reale e invece stanno costruendosi, pervicacemente e da soli, il da loro tanto paventato mondo di Matrix.

L’articolo è pubblicato su l’Arca, n°191 aprile 2004

(Luigi Prestinenza Puglisi – 3/4/2004)

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