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Storia e Critica

Il gioco delle tre carte

Architettura, critica, storia. Tre carte di seme diverso, spesso utilizzate senza mischiarle.
Saltiamo i preamboli, senza dunque riproporre gli avvenimenti della loro storia.
Veniamo all’oggi, quello dell’era informatica, dell’architettura digitale.
Fondamentale è chiedersi se il fenomeno “architettura digitale” interagisce con la critica o se – nel futuro prossimo- lo registreremo solo come fatto storico.
In quest’ultimo caso, esso non avrebbe valore. La critica è fondamentale vaglio al quale deve sottoporsi l’architettura digitale. Da più parti -autorevoli- arriva il messaggio del momento di cambiamento che si sta vivendo a livello sociale, in cui l’architettura assume un ruolo fondamentale.
Dibattendo con chi attaccava i significati della “critica operativa”, B.Zevi concludeva:
“In un contesto così fluido e confuso, notevoli responsabilità gravano sulla critica architettonica. E’ doveroso registrare la cronaca, anche gli episodi d’involuzione[…]Ma attenti a non offrire una spiegazione strutturale a qualsiasi fenomeno schizofrenico. Altrimenti abdichiamo, serviamo il consumismo, il processo dello styling ed i revivals classicisti” – vedi Editoriali di architettura -pagg.165-169 – PBE
I significati dell’importanza del ruolo della critica vanno oltre la semplice registrazione dei fatti. Punto fondamentale, da perseguire senza sosta.
Zevi lo attua nel tempo, e A.Saggio – parlandoci del libro Zevi su Zevi ( ed. Marsilio)- ne capta il significato: “La critica si avventura in una fase difficile, incerta, nuova. Forse in quella che proprio Barthes chiamava ‘ scrittura all’indicativo’ o amodale, lontana tanto dal linguaggio letterario che da quello parlato. E’ una direzione di cui non conosciamo ancora gli approdi[…]ma che invita a riflettere e a cercare” – vedi Domus 761-
La fase difficile, che la critica s’apprestava a vivere, ne era la sua stessa linfa vitale. Lo era è lo è.
Parlando della situazione attuale, indicai anche l’esistenza di architetti trasformisti che sono passati repentinamente dalla presunta influenza Kahniana alle più recenti indicazioni pervenuteci, ad esempio, da Eisenman o Gehry. Ne parlai, senza approfondire, in ” I vitelloni dell’architettura” – vedi Antithesi, articoli di critica-
e fu proprio A.Saggio a chiedermi di andare più a fondo, ammonendomi: “Paolo, la critica senza storia è battibecco” – Vedi Dialoghi, su Antithesi.
Il richiamo amichevole di A.Saggio sottolineava quanto la storia e la critica siano legate a filo triplo; lo storico ed il critico hanno ruoli interdipendenti.
E gli architetti? L’uso della “storia” da parte loro non può prescindere dalla sua lettura critica poiché, in caso contrario, la “storia” continuerebbe ad essere ridotta ad un insieme di cognizioni a cui fare riferimento, ma senza alcuna possibilità di poterla relazionare, in modo attinente, alla contemporaneità.
E’ chiaro che quando si parla di “critica attesa da una fase difficile”, il ragionamento è strettamente legato all’operatività architettonica. Senza architettura non ci sarebbe critica. Ma la critica può essere a posteriori? Che tipo di ruolo assumerebbe in questo caso? Indubbio: il critico si ridurrebbe a semplice giudice del risultato finale – quel che J.M.Richardson sosteneva- senza considerare la genesi “critica” del progetto, derivante dal progettista.
Indubbiamente è un compito duro, arduo, ma la critica non può esentarsi dal porsi interrogativi in tempo reale con gli avvenimenti. Deve fare di più: legare questi interrogativi anche al passato (storia) ed alle possibili potenzialità future dello stesso passato (storia).
Rilettura critica della storia che ci possa dare indicazioni per potere “riflettere e cercare”?
Le sette invarianti zeviane ne sono dimostrazione, e lo stesso Zevi lo dice chiaramente :”Non ho inventato questi principi. Come storico li ho ricavati scientificamente dalle esperienze del Movimento Moderno […] Con stupore e tripudio, ho scoperto che gli stessi principi si applicano a tutta l’architettura creativa del passato. Tutti gli artisti certi ed originali sono moderni”.
Le sette invarianti quali trasgressione alle regole. Non regole da applicare per progettare: in tal caso non avrebbero alcun senso.
Porre l’accento sulle invarianti zeviane significa, prima di tutto, evitare l’equivoco di considerarle un elenco da seguire punto per punto al fine della progettazione. I lettori sanno quanto importante sia stata la pubblicazione de “Il linguaggio moderno dell’architettura-guida al codice anticlassico”, ma in relazione alle questioni linguistiche degli anni ’70, ed al rifiuto dell’accettazione della crisi della modernità quale fatto irrecuperabile.
Messaggio chiaro: applicare letteralmente le sette invarianti per progettare, è lavoro pretestuoso. Un’eventuale applicazione va fatta conoscendo criticamente la storia dello spazio architettonico, una storia continuamente riscritta.
Storia e critica ribadiscono il loro dover essere interdipendenti, a servizio dell’architettura significativa.
Tra i suoi molti impegni, il Prof.Fulvio Irace – nella sua veste di storico e critico- si è ripromesso di chiarirmi i termini del -secondo me- importante parere da lui espresso durante un convegno a Milano: in sintesi -secondo Irace- non tutto quello che oggi si produce di nuovo (il riferimento è all’architettura digitale) può considerarsi assoluta novità. E’ affermazione di sicuro interesse, soprattutto se vista nei termini in cui stiamo scrivendo del rapporto tra storia e critica.
Ancora più curiosità mi ha messo il leggere le Sue considerazioni sulle invarianti zeviane – su cui abbiamo avuto un piccolo contraddittorio durante il convegno citato- ; riferendosi a Zevi, Irace precisa che : ” …le sue invarianti mi sono sembrate un non-sense scientifico, anche se un’utile dichiarazione di poetica storica”.
Vero è che, con esse, Zevi voleva -deliberatamente- suscitare dissenso, ma sicuramente- considerandole inutili- non lo avrebbe fatto con dichiarazioni di poetica storica.
Le invarianti zeviane incitavano all’azzeramento del linguaggio, finanche dei metodi di lettura della storia dell’architettura e della critica a posteriori.
A distanza di trenta anni, l’architettura della rivoluzione informatica ci obbliga a confrontarci con i nuovi temi che propone ed io non credo si possa escludere il lavoro possa prendere vita proprio da una delle invarianti: l’urbatettura. L’ultima invariante che Zevi metteva a conclusione del codice anticlassico, ma che non può essere intesa quale chiusura di un processo definito a priori.
Se analizziamo quanto Saggio ci dice sulle Nuove sostanze, è facile individuare in che misura l’architettura dell’era digitale venga, sempre e comunque, relazionata alla sua realtà, ai suoi campi applicativi: città e paesaggio. Le tre nuove sostanze di cui Saggio ci parla non sono elencate a caso: l’informatica -ultima ad essere citata- serve solo in sinergia e applicazione delle prime due -brown areas e spazio come sistema-
” Le aree si liberano, si cerca un rapporto più stretto con l’ambiente, si pensa all’architettura come ibridazione tra natura, paesaggio e tecnologia, si cercano spazi come sistemi interagenti perché siamo nella rivoluzione informatica[…] “.
Architettura digitale che trova assonanze con l’ Urbatettura, così come Zevi la presentava: “Non più blocchi occupati da fabbriche e blocchi vuoti delle strade e degli slarghi; disintegratane la trama, il paesaggio viene reintegrato. Superando la vecchia dicotomia città-campagna, l’urbatettura si dilata nel territorio, mentre squarci naturali penetrano nel tessuto metropolitano”.
Ripartiamo, dunque, dall’urbatettura contemporanea, non più legata solo a questioni di linguaggio.
Chiaro: l’essenza dell’urbatettura zeviana sono le interconnessioni, e d’ interconnessioni dobbiamo parlare oggi, durante la rivoluzione informatica, che ci consente di disintegrare le trame e superare la vecchia dicotomia città-campagna.
Quello che Saggio chiama urbanscape è parte dell’urbatettura zeviana, parte fondamentale che egli rintraccia nel Guggenheim di Gehry, leggendone criticamente i significati, oltre qualsiasi esclusivo senso estetico. L’urbanscape ci porta a sviluppare l’urbatettura, così da ricontestualizzarla ai nuovi elementi del nostro tempo.
Mi fermo qui, consapevole del senso provocatorio di questo mio scritto e rilancio il problema sollevato da Sandro Lazier :”riscriviamo il significato della parola storia, altrimenti rischiamo di non cogliere i frutti dell’ennesimo miracolo che l’intelletto ci sta suggerendo” – vedi Antithesi, Architetture digitali.
Significato della parola storia che non può essere riscritto senza la consapevolezza che la critica ne debba fare parte attivamente.
Il gioco delle tre carte non ci soddisfa. Mischiamole.

(Paolo G.L. Ferrara – 19/5/2001)

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