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Storia e Critica

PRADA, KOOLHAAS e la via dello ZEN

“Il tempo è moneta: a che vale spogliarsi la sera, se bisogna rivestirsi la mattina?”
Francesca Pagnoncelli scrive su Arch’it delle lamentele di Gregotti fatte a commento della mostra milanese su OMA ed Herzog & De Meuron, tema i progetti per Prada (Corriere della sera del 16 marzo 2001).
Apparentemente, tra la frase di Totò -che introduce questo articolo- e la Pagnoncelli non c’è alcun riferimento diretto.
Dalle parole della Pagnoncelli – a cui si rimanda www.architettura.it/files (link non più disponibile) – si comprendono chiaramente quelle che sono le posizioni su cui basa la sua personale ricerca.
L’articolo su Arch’it è diretto a demolire qualsiasi enfatizzazione della mostra OMA/ Erzog & De Meuron, tentativo fatto da Gregotti sul Corriere della Sera. Bene, la critica on line si allarga a macchia d’olio, e ci dà la possibilità di interagire, alimentando i contraddittori.
Andiamo oltre, cercando di centrare un problema più vasto: il ruolo della cultura nella società ed il ruolo della società nella cultura.
Prada come Olivetti? Ben venga, ma credo che – allo stato attuale- non si possa fare un paragone di tale portata.
La figura di Olivetti è stata – nonostante alcuni errori di valutazione- assolutamente fondamentale per lo sviluppo sociale dell’architettura e dell’urbanistica. Inutile elencare qui le molteplici iniziative di Olivetti: valgano per tutte il villaggio La Martella (Matera) ed il Piano regionale della Valle d’Aosta.
Un uomo sopra le parti che, pur non condividendo sempre le idee di urbanisti ed architetti, ne appoggiava incondizionatamente l’azione, intuendo quanto contassero più “le idee” che non le prese di posizioni personali.
Prada investe nella cultura e molte altre aziende cercano di darsi un’immagine di prestigio che ne legittimi la presenza sul mercato, oltre ogni finalità puramente commerciale.
La “società nella cultura” è fatto positivo ma non deve limitarsi – come dice la Pagnoncelli – alla sinergia con l’architettura per ” sollecitare il gusto della maggioranza”, quel compito che l’autrice dell’articolo delega, appunto, all’architettura. Il rischio c’è: che tali sollecitazioni diventino etichette. In tal modo, si finirebbe per dare ragione a Gregotti, nel senso che come lui ci si comporterebbe, imponendo un “tipo” linguistico che si identifica quale quello rispondente alla società. Più che sollecitare il gusto, l’architettura dovrebbe educare ai suoi significati.
Ma chi di noi può decidere quale è il modus con cui l’architettura possa ” rispondere a necessità di autorappresentazione della società contemporanea” ? Lo possono fare forse Herzog & De Meuron? Gregotti? Koolhaas? Fuksas? Botta? Perché la società deve autorappresentarsi nell’architettura? E quale società?
A differenza di Olivetti, quella di Prada è, per adesso, solo ” un’operazione imprenditoriale e pubblicitaria” che potrà dirsi “lungimirante e sorprendentemente intelligente” solo nel momento in cui coinvolgerà il sociale.
Ammetto che ne avrei fatto a meno, ma credo che nelle parole di Gregotti ci sia un fondo di verità. Mi riferisco espressamente a quanto scritto da Gregotti sulla “…cultura delle arti in quanto pensiero critico” , individuando nella mostra di Prada , il dubbio che – pur trattandosi di architetti- “non è detto che sia una mostra al cui centro ci sia l’architettura”.
Sia chiaro: il problema non sta nel dare ragione a Gregotti o alla Pagnoncelli, nè il mettere in discussione l’importanza di Koolhaas ed Herzog & De Meuron nella svolta decisiva che l’architettura sta vivendo.
Vittorio Gregotti prende posizione critica, e per tale motivo non può essere biasimato. Può essere criticato a sua volta, con argomentazioni valide sul campo, e gli studi di Koolhaas ne sono indiretta incarnazione. Due modi di studiare e concepire la città in modo diametralmente opposto. Gregotti ancorato a studi vecchi di trent’anni, Koolhaas proiettato nei problemi del futuro prossimo, ma con l’occhio vigile ai problemi del passato, con cui si deve per forza confrontare.
Gregotti è l’opposto della “polisemia, della multi funzionalità, dell’ideterminatezza caotica e dinamica” , come ci suggerisce Antonino Saggio a proposito di Koolhaas. Ed il modo d’intendere la pelle dell’edificio trova in Herzog & De Meuron assoluta dissonanza rispetto ai concetti di Gregotti sullo stesso tema.
Resta il fatto che unire società e cultura architettonica impone uno sforzo superiore a quello di una mostra. Olivetti chiamava i designer italiani a collaborare per dare vita ai prodotti industriali. Prada chiama architetti di chiara fama a progettare i propri negozi.
Olivetti intuisce i contenuti sociali che stanno alla base dei cambiamenti che l’architettura vive tra il 1938 – stabilimento d’Ivrea, in cui evidente è la volontà di attuare il razionale di Le Corbusier e Gropius – ed il 1955 – impianto articolato della fabbrica di Pozzuoli. Attento alla nuova architettura, Olivetti tenta di coniugarla con i problemi reali delle città e del territorio.
Prada dovrà guadagnarsi tale blasone e nulla ci vieta di pensare che lo possa fare. In Italia è meritorio organizzare un evento che parli di architettura. Tutto dipende però dal modo in cui lo si fa.
A differenza della Pagnoncelli, non credo che la cultura debba essere “imprenditoriale” , ma che debba essere l’imprenditoria ad incentivare la cultura. E non solo per gli eventuali scopi pubblicitari personali.
Che dire: mi sono presentato all’inaugurazione della mostra ma – povero me!- senza invito, dunque bruscamente fermato da sei big jim con tanto di auricolare all’orecchio, preposti alla tutela dei vip che mi sfilavano davanti agli occhi. Come dare torto a Gregotti ( ahimè, di nuovo!) quando – a proposito della mostra- dice “… anche se forse si richiede non di capire ma solo di partecipare” ?
Le forze imprenditoriali italiane hanno quasi sempre “usato” la cultura, quale vessillo da sbandierare per dare una parvenza d’impegno oltre i loro precisi obiettivi di profitto.
Gli scempi delle periferie ne sono esempio inconfutabile. I capannoni industriali disseminati nei dintorni delle città deturpano il paesaggio tanto quanto una brutta architettura inserita in un centro antico. Ogni tanto, qualche edificio di qualità, in cui si riflette la volontà dell’imprenditore di turno di darsi un volto consono ai tempi, ma oltre il quale c’è comunque un prodotto che qualifica anche il sito, e ciò non è da poco.
Il succo dell’articolo di Francesca Pagnoncelli su Arch’it è condivisibile, anche se credo che Gregotti non tema assolutamente che il committente privato si possa sostituire a quello pubblico. Lui lavorerebbe comunque.
Né dobbiamo illuderci più di tanto che il privato sia terreno fertile per la meritocrazia architettonica.
Olivetti amava ripetere che i suoi progetti venivano pensati a scadenza ventennale. Oggi ciò sarebbe improponibile per la mentalità di qualsiasi imprenditore, per i quali vale la frase di Totò di cui sopra : “il tempo è moneta: a che vale spogliarsi la sera, se bisogna rivestirsi la mattina?”
La sfida è aperta, forse impossibile, ma mi piace pensare che possa essere realizzata: Koolhaas a Palermo, a riprogettare la città e le sue sacche di disagio sociale, di cui lo Zen di Gregotti è emblema.
Koolhaas a Palermo, sponsorizzato da Prada. Sarebbe la migliore risposta che si potrebbe dare a Gregotti.

(Paolo G.L. Ferrara – 4/4/2001)

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