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Gli ultrà di Zevi

Si sarà rivoltato nella tomba, inveendo contro i responsabili dello striscione, a lui inneggiante, esposto alla facoltà d’architettura del Politecnico di Milano. Bruno Zevi, ovunque sia, si è, sicuramente, indispettito.
Non è così che ha vissuto la sua vita. Non è mai voluto essere elogiato, tantomeno idolatrato.
Cari ragazzi, avete sbagliato a ricordarne la figura scrivendone il nome su di un lenzuolo.
Avete sbagliato soprattutto ad esporlo al Politecnico di Milano.
Certo, lo avete fatto in buona fede e ciò vi giustifica quel tanto che basta per non condannarvi.
Permettetemi di dire, con orgoglio e con presunzione, che il pensiero di Bruno Zevi è rientrato al Politecnico di Milano grazie ai corsi da me tenuti. Prima di allora, l’assoluto silenzio. Per tutto ciò, mi arrogo il diritto di dirvi ciò che penso.
Sin da studente, me ne chiedevo i motivi e poi, da docente precario, ho capito che Zevi era pericoloso per i farraginosi equilibri del sistema universitario. Zevi rifiutava l’incultura e tutte le compromissioni ad essa legate.
La sua battaglia universitaria è stata basata sulla certezza che solo l’azzeramento delle strutture universitarie e la loro riprogrammazione avrebbe potuto sradicare l’atavica massificazione delle facoltà. Dunque, non più “riformare l’università, ma rivoluzionarla, cioè reinventare le strutture”.
Zevi sarebbe altrettanto furente sapendo che alcuni docenti vi fanno leggere il suo ” Il linguaggio moderno dell’architettura” senza prima farvi studiare la “Storia dell’architettura moderna”. Il risultato è che finite per credere che le sette invarianti zeviane siano regole per progettare. Ho cercato d’inculcare a molti vostri compagni che il grande merito di Zevi è stato quello di liberarci dalla schiavitù dei corsi universitari quali luoghi in cui erano impartiti dogmi e certezze; luoghi in cui il professore era il despota pontificante e l’alunno l’uditore silenzioso.
Quando Zevi si dimise dall’università, fu accusato di dare il cattivo esempio poiché lasciarla significava abbandonare la lotta. Gli chiesero cosa sarebbe successo se molti altri docenti avessero lasciato l’università e lui, schietto e diretto come sempre, rispose: << ipotesi astratta. Questo è un paese in cui nessuno si dimette, e tutti restano arroccati al proprio centro di potere, per fasullo che sia>>.
Da parte mia, ho sempre difeso gli studenti, anche sulle pagine di questa rivista (vedi l’articolo “Il Coraggio”), ma da voi Antithesi si aspetta che la lotta non sia “volantinaggio”.
Ho avuto duri contraddittori in commissione di Laurea con professori che – cosa molto grave- più che non capire, non volevano capire. Zevi me lo aveva detto:<< L’Università ti fa schifo? Lasciala!! In caso contrario, lotta!, senza alibi>>.
Lottare non significa esporre lenzuola o cartelli. Lottare significa affrontare l’università senza paure di sudditanza nei confronti dei docenti. Lottare significa studiare per potere avere i giusti argomenti per fare valere le proprie opinioni. Lottare significa sapere che si può anche subire qualche danno. Lottare significa non avere paura di esporre il proprio pensiero, anche a costo di non superare l’esame o, nel mio caso, di essere esclusi dall’incarico d’insegnamento.
Lottare non significa fare le barricate ed accampare solo diritti: significa, in primis, essere consapevoli dei propri doveri.
La lotta ha significato solo quando si basa su ideali meritori. Esporre un lenzuolo con impressa una frase di Zevi è come piangersi addosso. Piuttosto, chiedete ai vostri docenti di Storia, di Progettazione, di Laboratorio i perché dell’ostracismo nei confronti di Zevi. Chiedete loro che la vostra preparazione possa avvenire su più punti di riferimento che non siano solo Benevolo, Frampton o Pevsner.
Interagite con la libera cultura esterna agli atenei o con quella che in alcune facoltà è portata avanti con grande passione da giovani docenti.
Bruno Zevi, dal 1979 in poi, non mise più piede in una facoltà di architettura e voi lo avete fatto rientrare nel modo più sconveniente possibile, commemorando un morto che morto non è. Credete realmente che qualche docente del Politecnico si sia commosso?
Sapete tutti voi che le Università sono luogo clientelare come lo sono le Poste, i Ministeri, gli appalti pubblici, gli ospedali e tutto ciò che fa capo allo Stato. Sapete tutti voi che i docenti si criticano tra loro senza avere il coraggio di dirsele in faccia. Sappiamo tutti noi come funziona l’università.
Bruno Zevi non va commemorato. Ci ha lasciato un vastissimo patrimonio a cui possiamo attingere per la nostra crescita, ed un grande esempio: dire sempre ciò che si pensa, senza compromessi, senza ipocrisie, senza diplomazie miranti ad ottenere qualcosa dalla controparte.
Io, fatto fuori dal Politecnico di Milano, ho pagato di persona l’attuazione degli insegnamenti che Zevi, indirettamente, mi ha dato. Ma ne sono fiero.
La sua statura intellettuale di critico e storico sarà per me assolutamente irraggiungibile e, contrariamente a tutti i falsi eredi “spirituali” di Zevi, vi dico che il modo migliore di essere zeviani è non compromettersi mai!
Battetevi contro l’immobilismo dei docenti, contro i programmi che, da decenni, sono sempre gli stessi. Scandagliate ogni parola che il docente dice e non abbiate timori nel metterlo in difficoltà. Ribellatevi se, frequentando un corso di storia contemporanea, il programma non va oltre il M.M.
Chiedete che il vostro ruolo non sia esclusivamente quello di pivellini che devono solo ascoltare.
Ho conosciuto molti studenti in gamba che, quasi rassegnati, mi dicevano ” professore, purtroppo la facoltà è una delusione; se vogliamo laurearci dobbiamo fare quello che vogliono i professori” ; studenti in gamba che non trovavano più la forza di reagire.
Zevi aveva fiducia negli studenti. Il vero, unico modo di ricordare Zevi è renderlo attuale, soprattutto in senso etico.
Un tempo, stupidamente, credevo di essere uno tra i pochi zeviani in Italia; oggi, dopo avere conosciuto persone di grande statura storico/critica, posso dire che l’eredità di Zevi è forte, è in divenire. Ma ne sono eredi coloro i quali lo rendono contemporaneo ed essi stessi sono non più eredi, ma contemporanei. Personalmente, credo che un esempio possa essere il lavoro Antonino Saggio. Professore alla Sapienza di Roma, ha saputo rendere gli studenti parte integrante delle sue ricerche, arrivando a centrare l’obiettivo di Zevi: unire didattica e ricerca.
Il suo lavoro trova realizzazione anche nell’alimentazione della libera cultura, quella fatta fuori dagli atenei. Doppio merito.
Io non conosco personalmente Saggio, ma i suoi scritti ed il suo impegno nella ricerca sono lì, a dimostrare che, se lo si vuole, si può preservare l’eredità di Zevi, attualizzandola.
Conosco Sandro Lazier, da cui ho compreso quanto possa essere importante la libera cultura e quanta preparazione ci possa essere anche in chi non bazzica gli atenei.
Sto imparando a conoscere Luigi Prestinenza Puglisi, con la piacevole sorpresa che c’è chi non teme il confronto anche al di fuori delle facoltà.
Avete mai sfogliato “L’architettura, cronache e storia”, direttore Zevi? Si puntava sui giovani architetti, quasi sconosciuti. Non la leggeva nessuno. Si preferivano le pagine patinate di altre riviste, ove imperava il commento, mentre dei contenuti non vi era traccia, quasi in nessuna.
Non so che faccia abbia Marco Brizzi, ma so che la sua Arch’it si è assunta una responsabilità importantissima: valorizzare i giovani, farli conoscere, dargli voce. Pochi ne hanno il coraggio.
Ho voluto fare questi nomi per darvi modo di spaziare con le vostre conoscenze, di sentire più voci possibili.
Questa è, ne sono sicuro, solo una minima parte della libera cultura che si muove e stimola.
Zevi stravedeva per la libera cultura: chiunque gli mandasse manoscritti o disegni riceveva risposta alle domande. Ecco cosa dovrebbero imparare tanti docenti che si sentono intoccabili ed irraggiungibili: Zevi, il critico di cui Le Corbusier, Mendelshon, Scharoun, Kahn, Gehry , Aalto, Wright, Samonà riconoscevano la capacità di essere forse l’unico in grado di capire realmente il loro pensiero leggendone le architetture, trovava il tempo di avere a che fare anche con me, un Paolo G.L.Ferrara qualunque.
Ricordate: l’unico modo per crescere con Zevi è “fare” cultura. I lenzuoli commemorativi esposti nelle facoltà non servono, almeno che non vi sia scritto : ” avete mai passeggiato nelle aule di una facoltà di architettura? Un temporale di parole insensate, di pressappochismi, di pseudo-concetti colpisce quotidianamente gli studenti, li stanca, li sfibra, li stordisce, li passivizza. Chiacchiere sciatte, a non finire.Si commentano i testi di architettura senza leggerli, senza suonare l’architettura, cioè senza fruire gli spazi e i volumi in modo dinamico, aperto, problematico, ambiguo”. Lo diceva Bruno Zevi. E diceva la verità.

(Paolo G.L. Ferrara – 25/1/2001)

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