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Controrivista

Il (non) mistero della pesantezza (…delle parole)

Ne siamo consapevoli: chi legge Antithesi potrebbe avere il sospetto che in noi vi sia particolare attenzione negativa in merito a quanto viene scritto su L’Arca. Non è così, perché non è il nostro obiettivo. Sta di fatto che, nell’ articolo “I martiri secondo Casati”, avevamo incitato l’Arch.Casati, quale direttore de L’Arca, a dare più peso culturale alla rivista, soprattutto in considerazione dei mezzi e della tiratura di cui essa dispone. Chiediamo tolleranza, ma crediamo che pubblicare un articolo quale quello di Stefano Pavarini – (Il mistero della) LEGGEREZZA- L’Arca n°152 – dovrebbe essere, quantomeno, imbarazzante. Intanto, gli studenti leggono, incamerano e, sempre di più, infarciscono il loro cervello di inutili parole, citazioni, riferimenti falso-intellettuali. Il commento critico che segue è rivolto esclusivamente all’autore dell’articolo, ed è ad egli che chiediamo lumi. Pavarini incalza da subito: <<…Il linguaggio è incorporeo, immateriale, invisibile, è la nostra condizione di appartenenza al mondo. Le architetture di Eisenman o di Libeskind rappresentano in modo magistrale appieno il gioco intellettuale del linguaggio, la capacità dell’architettura di rappresentare e dare forma ai concetti più astratti>>. Saranno contenti Eisenman e Libeskind… Mi domando se Pavarini ha mai tentato di “leggere” le architetture di Eisenman e Libeskind. Mi spiego. L’architettura della de-costruzione – quale quella di Eisenman e Libeskind definita da Pavarini – non è dunque linguaggio? Essa riesce esclusivamente a rappresentare e dare forma a concetti astratti?
E quali sarebbero i concetti reali che l’architettura ha rappresentato e a cui ha dato forma?
Pavarini non si lascia cogliere impreparato: sono quelli inverati dalle forme archetipe, estasiate nella loro ritmicità e musicalità. Ma, caro Pavarini, cos’è per Lei il linguaggio architettonico? Forse qualcosa di immateriale, incorporeo e…invisibile? Nel Suo articolo cita tante cose, ma il Suo pensiero dov’è? Che ci dice dei significati della leggerezza in senso spaziale? E, se è vero che <<…la leggerezza non è una questione di massa>>, forse Borromini era un sedicente architetto “ambulante” che faceva del “superfluo” la sua dote migliore? Quel “superfluo” che, al contrario, Terragni toglie dalle sue architetture? Ma, mi scusi, Terragni – per caso- non è forse stato architetto proiettato furiosamente alla ricerca di un senso del linguaggio razionalista, mutuato da Le Corbusier? Forse che anche Terragni volesse ricercare <<…segni liberati dal senso – (quello di Le Corbusier n.d.r)>>? E cosa sarebbe ciò che Lei definisce <<…pesantezza seriosa del Bauhaus>>? Ma, sinceramente, ha presente l’edificio di Gropius? Ricorda delle innovazioni di Van Doesburg? E’ mai stato al padiglione di Mies? O forse si riferiva al “pensiero Bauhaus”…boh! Sarebbe altrettanto ingiurioso… Ciò che, a proposito della decostruzione, Lei definisce <<…riscoperta di un mondo di segni “liberati dal senso”>> è cosa nota durante tutto il Movimento Moderno, soprattutto nell’espressionismo e nell’architettura organica. La fluidità spaziale è l’unico campo di prova dell’attendibilità della leggerezza. L’architettura non è solo “fuori”: finchè Lei continuerà ad osservarla solo da tale punto privilegiato, finchè non avrà voglia di entrarvi, continuerà a fare inutile retorica, dannosa quanto mai per chi, leggendoLa, non avrà ancora capacità conoscitive tali da comprendere che sono esse le vere “fumosità”, e non quelle del decostruttivismo, come Lei ebbe già a dire su l’Arca, parlando di Gehry (child’s museum). Io non difendo il decostruttivismo, credo anzi che ci sia troppa enfasi e confusione in merito a tale classificazione, ma non credo che sia minore di quella che il Suo articolo mostra. L’architettura è linguaggio. Oltre, il nulla. La leggerezza non la si raggiunge obbligatoriamente né con archetipi, né con “forme convulse e distorte”. La leggerezza è solo ed esclusivamente capacità di fluidificare lo spazio, renderne percettibile il dinamismo. Se, invece di continuare ad “esaminare” l’architettura definita decostruttivista s’iniziasse con il riconsiderare la leggerezza spaziale di Wright, Saarinen, Mies del Padiglione, Scharoun, etc., forse ci si accorgerebbe che il pretesto “decostruttivismo” è solo tale. Finiamola! L’architettura parlata non mi è mai piaciuta: nasconde insidie. Preferisco leggerla nella sua essenza reale, nel suo essere costruzione. Ricercare la leggerezza è argomento che lascia il tempo che trova; essa è solo una risultante del pensiero espresso in un’architettura costruita. Dunque, “pensiero”, “linguaggio”, “parola”, quest’ultima, assolutamente, non entità astratta, ma misurabile e visibile. Che dire ancora? Forse che, nell’anacronismo e confusione di quanto da Lei scritto, potrebbe essermi sfuggito il senso che in esso si nasconde. Mi perdoni, nell’eventualità …remota -ma non credo che lo farebbe mai- Ribadisco il consiglio al Direttore : non spacciate la cultura, fatela. Vi leggono migliaia di studenti che crescono tra carta patinata e foto d’impatto. Passi ciò, ma non infarciteli di “parole nel vuoto” – Pavarini cita Le Corbusier in “gioco sapiente”, ed io, un po’ invidioso e non volendo essere da meno, mi affido a Loos…

(Paolo G.L. Ferrara – 10/1/2001)

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