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Storia e Critica

Finché morte non ci separi

Sembrava ce ne fossimo liberati senza spargimento di sangue. Il naturale divenire delle cose aveva fatto si che l’accademismo post funzionalista non fosse più l’avversario da combattere.
Tutto sommato, l’apertura lenta ma continua verso una nuova architettura, non aveva avuto bisogno di mettersi in netto contrasto con il razionalismo accademico, superando di slancio il problema dell’architettura intesa esclusivamente quale “linguaggio”.
Gehry, Libeskind, Eisenman, Koolhaas & C. non si guardavano alle spalle, continuando con tutta tranquillità a fare ciò che ritenevano lecito. Liberatisi dal pericolo dell’etichetta che Johnson tentava di appiccicare al loro operare, si sono lentamente ma costantemente avvalsi della facoltà di “non rispondere” agli attacchi dell’accademia.
Il loro motto è stato “non ti curar di loro, ma guarda e passa”.
Passa e ripassa, è successo che siano capitati anche in Italia, qualcuno coinvolto in progetti, qualcun altro con le personali teorie. Il Piave è lontano nel tempo, ma c’è chi ha ancora nel sangue il ritornello “non passa lo straniero” . Purtroppo, ciò presuppone che non passino neppure le idee dello straniero, dunque, che si combatta per la vittoria del neoconservatorismo!
Inutile ripercorrere i passaggi storici che hanno portato l’Italia ad essere quel paese che Libeskind , per quanto concerne l’architettura, definisce in stato di rigor mortis.
Smentiamo Libeskind: non si tratta di rigor mortis, ma di coma vigilato. Da chi? Concorso di colpa: illustri professionisti accademici, intellettuali, università.
E’ un circolo vizioso, ove vige la prerogativa del non pestarsi i piedi. Fraintendimento: la nuova spinta propulsiva degli accadimenti contemporanei all’interno della società non corre il pericolo di potere essere fermata dai neoconservatori, visto e considerato che le tematiche di ricerca sono assolutamente opposte.
Posizione tutto sommato scomoda quella dei neoconservatori che trenta anni fa si batterono per un antimodernismo ponderato sul fallimento del M.M. – quasi sempre identificato solo nell’International Style, mentre oggi cercano di battersi contro chi sta realmente superando quella stessa crisi della modernità che loro cercarono di affrontare.
Posizione tanto scomoda quanto ambigua, sin dai tempi di Ronchamp. Povero Le Corbusier informale, cosa hai combinato?! Ronchamp fu considerata un gesto senile ed oggi, a detta dei neoconservatori, molti architetti sembrano essere caduti nel formalismo inutile e autocelebrante, non accorgendosi che il problema non è più di “forma” e che dietro a ciò che loro chiamano formalismi vi è molto di più, in primis una nuova sensibilità del contesto/paesaggio. Non l’hanno capito, tant’è che il progetto di chiesa – Roma- di Eisenman è ridotto a formalismo quanto lo fu la N.D. Ronchamp di Le Corbusier.
Per questi motivi, credo che il problema del neoconservatorismo non debba allarmarci più di tanto. Vero è che in Italia il fronte dei neoconservatori, schierato e compatto com’è nei posti di potere, non sarà facilmente superabile, ma credo altresì che sia molto, molto labile nelle sue argomentazioni, soprattutto se ne consideriamo l’impostazione di base in riferimento al progettare architettura.
Non può esserci confronto tra i due atteggiamenti perché non ci sono obiettivi comuni:
L’addestramento architettonico è prerogativa del neoconservatorismo accademico;
La sperimentazione spaziale è prerogativa di qualsiasi atteggiamento di modernità culturale;
Vediamo come.
1.L’addestramento è, ovviamente, fatto di regole – per lo più imposte-, di programmi e di commenti sulle opere; la sperimentazione è fatta dalla lettura spaziale dell’architettura nella storia e calata nella contemporaneità.
2. L’addestramento scandisce la storia in precisi periodi e costituisce un limite, poiché impone di credere che a precise date siano finiti e siano iniziati i diversi linguaggi architettonici, chiamati stili in modo erroneo; la sperimentazione spaziale intende la storia come un continuum, un intreccio di linguistiche spaziali senza soluzione di continuità, registra i cambiamenti ma non con repentinità e cesure nette .
3.L’addestramento ci parla di “eredi” dei maestri; la sperimentazione ci parla di “contemporanei” dei maestri;
4. L’addestramento ha il preciso obiettivo di farci credere che l’architettura sia, per sua natura, classica, cioè proporzionata, regolare, tendenzialmente simmetrica, enfatica, e che viva per trasmetterci il messaggio del controllo dello spazio da parte dell’uomo; la sperimentazione non si pone obiettivi di codificazione, ma ricerca i contenuti dello spazio, affrontando gli eventuali problemi linguistici che con esso nascono.
5. L’addestramento si basa su fatti consolidati ed all’apparenza inattaccabili; la sperimentazione li attacca e li erode, smascherandone il più delle volte la precarietà.
6. L’addestramento impone come fondamentale, per potere essere buoni architetti, solo una parte del patrimonio storico-linguistico; la sperimentazione non può prescindere dal rivisitarlo interamente.
7. L’addestramento basa le sue tesi sul presunto stato confusionale che l’architettura sta vivendo, causa i numerosi linguaggi che si parlano; la sperimentazione fa di questi numerosi linguaggi la sua forza, basandosi non sulla divulgazione di segni ma sulla visione spaziale dinamica degli stessi.
8.L’addestramento è di facile attecchimento perché richiede solo buona volontà nell’incamerare dati a memoria; la sperimentazione è di difficile attecchimento perché si basa sulla interpretazione globale della storia dell’uomo e della sua vita, letta percependo i significati del rapporto uomo/spazio, uomo-spazio/costruzione, uomo-spazio-costruzione/luogo, inverandosi nell’uomospaziocostruzioneluogo.
9. L’addestramento ci parla di come applicare gli archetipi; la sperimentazione di come distruggerli, tramite la genesi spaziale di un progetto.
10. L’addestramento ha una ed una sola modalità applicativa; la sperimentazione spaziale, migliaia.

Risultato finale: parlare della democratizzazione dell’architettura, tramite la semplicistica suddivisione in classico ed anticlassico, diventa pretesto per la creazione di un altro luogo comune, quello del loro contrapporsi, tentativo di tappare volutamente la fuoriuscita della forza magmatica della nuova architettura per mano degli addestratori, cui la diatriba classico/anticlassico fa comodo, molto comodo, perché legittima il portare avanti le loro tesi accademiche. In verità, non vi è un unico linguaggio anticlassico, ma due, dieci, cento, mille e ciò rende difficilissimo distruggerli tutti.
Siamo di fronte ad una barriera effimera ed il modo per abbatterla è progettare liberamente – e, perché no, anche accademicamente – ma sapendo, per verità di coscienza, che la modernità ha il suo valore nell’avere sezionato la storia senza remore e senza inibizioni di sorta, riportando i temi della sperimentazione spaziale ad essere la base del fare architettura. All’accademismo non si rimprovera il diritto (comunque legittimo) di propagandare le proprie tesi bensì il fatto che voglia imporle quali uniche ed inderogabili regole per la buona architettura, additando le espressioni linguistiche diverse quali eversioni da reprimere con violenza. La forza dell’anticlassico sta nel fatto che, rispetto all’unica di pertinenza dell’accademismo classicista, le possibilità di applicazione che esso ci offre sono molteplici.
Eliminiamo il problema classico vs anticlassico e lasciamo che sia incubo dei neoconservatori. Chi è realmente anticlassico non può sentirsi parte in causa poiché non si pone il problema di sfuggire alla visione dell’architettura come sistema di controllo per delimitare e relazionare funzionalmente lo spazio.
I neoconservatori lottano contro sé stessi e, consapevoli che la crisi che tendevano a superare era tale proprio perché non vi erano certezze – dunque era cosa viva, foriera di sviluppi ed esente da possibili controlli terapeutici – si sono resi conto di avere fallito l’obiettivo della risoluzione del fallimento del M.M.
In Italia stanno attuando una forte resistenza? E’ un problema loro, probabilmente di connotazione nostalgica.
Più che resistere, dovrebbero riflettere sui motivi per cui, nonostante l’impegno teorico e pratico attuato in trenta anni, la crisi della modernità non è stata superata a mezzo dei loro assunti. Di più: se è vero, come è vero, che la contemporaneità ci offre ulteriori vie, altrettanto lo è che queste non necessariamente partono dalla crisi del Movimento Moderno. Ma alla crisi devono tutto, perché senza di essa non si sarebbe arrivati al “grado zero” di cui si nutrono.

A noi anticlassici la scelta: chiediamo ufficialmente il divorzio oppure continuiamo a litigare con i neoconservatori, finché morte non ci separi.

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