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Architettura (lezioni 11-15)

Lezione numero 11

Siamo un paese orgoglioso della propria storia, benché in maggioranza sia storia di poveracci macellati in guerra dalla vanità di principi, re e tiranni. Siamo un paese che ha paura di perdere la propria identità (in maggioranza figli di poveracci macellati da principi, re e tiranni) che, da quando dice d’averla persa, nei popoli che l’hanno persa, non ha meravigliosamente più conosciuto una guerra cruenta.
Il nostro problema, quindi, è quello di cambiare identità, non quello di conservarla, perché la nostra identità è violenta, sporca, infetta, cinica e malata.

Il nostro problema è quello di liberarci della galera della memoria e costruire un uomo nuovo, sano, libero, senza storia, perché ognuno deve essere padrone ed autore del proprio destino, in barba ai pedigrees di tutte le razze e religioni. E questo lo si fa cominciando da dove si abita, sfidando il futuro, inseguendo il presente in tutte le sue possibilità, ripudiando il linguaggio formalizzato della tradizione e di questa accettando solo le sue meravigliose bestemmie.


Lezione numero 12

GhardaïaAlgeria

Da ormai parecchi anni le mie personali ricerche nel campo dell’architettura vertono quasi esclusivamente sugli spazi che questa procura e che costituiscono il vero tema di dialogo con l’interlocutore. Non vertono sulle cose materiali ma sui vuoti che si formano tra le stesse. Questa, secondo me, rimane l’essenza dell’architettura: creare spazi e non solo costruire edifici. Ogni progetto è un continuo rimbalzo di condizioni spaziali interne allo stesso o in relazione con l’esterno, tali che ne modificano il racconto dentro la trama urbana, arricchendolo o completandolo, sempre trasformandolo. Perché così è anche la vita.
Questi vuoti, che si possono chiamare ambiti, vani, fessure, cortili, carruggi, sono diventati per me lo strumento di lettura principale del linguaggio architettonico contemporaneo. Se ci si concentra infatti solo sugli oggetti, gli edifici, il loro stile, i materiali o altre caratteristiche tipiche del design, si perde la dimensione principale dell’esperienza architettonica, quella che si prova entrandoci. Di solito incontriamo degli oggetti, spesso isolati in un tessuto urbanistico rigido ed elementare, i quali, se non hanno al loro interno fessure o trapassi o ambiti tali da ricreare scambio di relazioni spaziali, restano mute frasi isolate anche in presenza di elaborate e fantasiose ricerche plastiche di superficie. Di solito faccio due esempi che sembrano chiari. Forse la più suggestiva piazza del mondo è la Piazza del Campo di Siena (foto in basso).

La sua forma e collocazione all’interno della città procura stupore indipendentemente dagli edifici che la circondano, nessuno dei quali di particolare pregio. La sua forza sta quindi nel suo spazio e non negli oggetti che lo definiscono. Altro esempio sono le città storiche, apprezzate ormai universalmente, che valgono più per la trama che per gli edifici che le compongono. Se gli stessi edifici fossero distribuiti su trame diverse, magari regolari e distanziate, come vuole il decreto legge sulle distanze minime tra pareti finestrate, non credo che riconoscereste la città storica di partenza. Quindi, il vero strumento che determina l’architettura, non sono gli edifici in sé, i materiali o le forme o quel che volete, ma fondamentalmente la loro distanza ed il loro modo di rapportarsi. Tra sé e sé e sé e gli altri. Purtroppo, tutta la normativa che serve a produrre gli edifici nel nostro paese considera la distanza un tema solo giuridico, rinnegando secoli di storia dell’architettura e dell’urbanistica.

Piazza del Campo – Siena

Lezione numero 13

Paesaggio umano_ negozio per bambini – Siria 2019

Nella lezione precedente ho messo in rilievo il fatto che le architetture valgano più per le loro relazioni spaziali che come oggetti costruiti. Questa apertura, concettualmente assai poco materialistica per i gusti del novecento, potrebbe dare adito a teorie e principi più prossimi ad una visione performativa dell’arte urbana, più vicina ad un’idea di paesaggio pittoresca e contemplativa, tra l’altro in linea con la percezione turistica del nostro paese oggi diventata strumento di nuova economia. Una visione che dovrebbe comprendere una regia urbana che dai materiali alle simbologie, alle tipologie e agli archetipi tenda a conservare coerenza stilistica e morfologica dentro uno schema di continuità, quindi in linea con la tradizione costruttiva. Questa concezione, che nella sua semplicità diventa un potente richiamo normativo facilmente applicabile, ha dato origine all’idea diffusa che ogni nuovo intervento urbano debba essere “ambientato” e reso armonico con il passato o con la natura.

Per sua condizione, essendo questa una idea evidentemente reazionaria, anche se venduta come innovatrice, non può appartenere ad un concetto libero ed evoluto di architettura.
L’unica idea di panorama per me concepibile è solo quella riferibile al paesaggio umano, che precede quello naturale, quello pittoresco e quello mercantile, e che è sola sintesi dentro un tutto universale. Nessuna cultura e tradizione locale può valere più dell’ultimo uomo che vive al suo interno e, per questa ragione, ogni uomo esprime e può esprimere solo valori universali o resi tali dalla universalità dei suoi gesti e della sua condizione di appartenenza ad un’unica razza e cultura umana.
Questo continua a rimanere, malgrado i deboli di pensiero, un principio generale assoluto.

Non c’è l’uomo da una parte ad osservare ed il teatro urbano o naturale dall’altra ad essere osservato, poiché uno comprende l’altro in un’unica esperienza. Qualsiasi gesto dell’osservatore influisce sulla parte osservata, soprattutto in presenza di modificazioni spaziali. Per questa ragione io dichiaro che non si possono produrre progetti indifferenti al contesto che li contiene e, per questa condizione oggettiva, nessun contesto può imporre l’adesione al proprio linguaggio formale quando, proprio la possibilità della sua negazione o contestazione, è espressione di tale appartenenza. Solo un contesto umano che consente di essere contestato esprime realmente la sua natura. Quindi nessun processo di falsificazione o imitazione può essere accettato come apertura verso il rinnovamento ma solo come chiusura retorica e reazionaria, in senso severamente culturale.


Lezione numero 14

Christo – The floating piers -Lago d’Iseo

Tra i pittori, nella loro storia, l’invenzione della fotografia rappresentò un vero stravolgimento. Togliere alla capacità tecnica dell’artista la possibilità di rappresentare fedelmente il mondo esterno e sostituirlo con l’esito d’un marchingegno meccanico, dando pertanto a questo la possibilità di riprodurne innumerevoli copie, costrinse le menti più illuminate e sensibili a cercare altri paesaggi, interiori, sentimentali o mentali, essendo esaurito il problema di dover raffigurare gli eventi con precisione nella loro immagine esteriore.
La realtà, quindi, si viene a manifestare secondo altre rappresentazioni, che si riveleranno molto più feconde e profondamente descrittive della condizione umana, obbligando tutti gli uomini a cambiare la loro cultura estetica e, quindi, etica.

Oggi viviamo sicuramente un momento di reazione intellettuale che pare preferire i grandi artisti del passato (in italia su questo siamo parecchio conservatori) ma è indubbio che tra un quadro di Caravaggio e la camminata di Christo sul lago d’Iseo ci sia una disparità, secondo me anche qualitativa, molto grande. Nel primo possiamo ammirare la fedeltà, quasi fotografica, e la ‘bellezza’ della scena. Una scena che è sempre la stessa dalla fine del 16° secolo ma che noi osserviamo con le conoscenze di oggi e la coscienza (cosmologia) di oggi.
Nel secondo la nostra esperienza, invece, è totale e pienamente allineata al nostro presente e soprattutto alla nostra presenza. Di lei resteranno le foto e la ‘narrazione’ fotografica la quale ci riporta al momento della crisi della pittura che dicevamo prima. Nessuno in passato, fuori dal nostro tempo, ci sarebbe arrivato pur possedendo il genio di Christo.

Ciò che mi ha sempre colpito è il fatto che l’architettura, malgrado le avanguardie dei primi del novecento che rincorsero e addirittura precedettero molte forme d’arte figurativa, questo stacco non l’abbiano mai sentito e solo sporadicamente l’abbiano indicato in autori particolarmente lontani dalla concezione accademica della teoria architettonica, più pronta a genuflettersi al passato, e alla sua storia spesso sovrastimata, che a premiare le aperture del talento genuino.


Lezione numero 15

“È una bella prigione, il mondo” dice Shakespeare in Amleto. Tutto il problema dell’arte e delle tecniche per attuarla fanno riferimento alla rappresentazione del mondo sensibile.
La prigione di Amleto ci ricorda la finitezza di spazio e tempo che sono le categorie dentro le quali siamo costretti.
Per questa ragione, chiunque lavori per migliorare la condizione dell’uomo, per nobilitarla rispetto al triste destino che la persegue, ha a che fare con la vita e la sua rappresentazione in forma lirica che è, appunto, l’arte.
Il design e l’architettura sono l’arte di vestire la quotidianità, le cose visibili e utili alla vita domestica, lavorativa e ricreativa. Ma attenzione, non sono solo decorazione, orpello di una realtà determinata dal necessario delle cose comunemente ritenute concrete. La dimensione principalmente estetica del loro essere coinvolge il giudizio etico che noi affidiamo alla comunicazione.

Noi siamo le parole che pronunciamo e possiamo raccontare la nostra storia e la nostra vicenda solo con le parole della comunicazione.
Perciò abbiamo necessità di un linguaggio a cui affidare significati e sensazioni, in cui esprimere il nostro sentire. Ma il linguaggio non è singole parole ma come le stesse stanno insieme a comporre un racconto. Nel nostro specifico le parole sono i singoli pezzi di arredo ma il racconto lo definiamo di volta in volta nelle relazioni spaziali con cui questi elementi vengono in rapporto.
Per questo il design e l’architettura fanno riferimento al linguaggio, alla comunicazione, all’arte.



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