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Storia e Critica

Pandemia e paraculismo

Una delle prime conseguenze tangibili del corona virus è riscontrabile nell’immediato incremento del carico burocratico, ovviamente sempre a spese del solito babbeo che ha deciso di lavorare in questo paese di santi (non praticanti), navigatori (web) e poeti (della gabella).
Chi non avesse idea di cosa vuol dire oggi decidere, per esempio, di aggiustare casa, sappia che la sua bizzarra idea metterà in moto una quantità di personaggi “certificatori” tale che, solo per la carta che non verrà mai letta e per l’inchiostro necessario per produrre un copia incolla di proporzioni ciclopiche, varrà un considerevole pezzo di PIL, rubato ad investimenti più produttivi, e una pari quantità di Co2 per trasportare inutilmente le truppe della burocrazia da una parte all’altra dei confini nazionali.
Chi si è inventato tutta questa paranoica giungla normativa non lo ha fatto privo di una ragione, e la ragione è stata quella di mettere in moto un sistema fatalmente parassitario, fine a se stesso, con l’alibi della sicurezza, o dell’efficienza o di altre trovate retoriche capaci di mantenere professioni che altrimenti, sul piano della reale necessità sociale e dell’efficacia, risulterebbero insignificanti. A sentire questi normodotanti, la causa di tutto sarebbe una normativa europea che imporrebbe requisiti e caratteristiche uniformi nei vari Stati di appartenenza. Il che, in parte, è vero, ma è la parte minima. Quella più grande è invece farina d’un sacco molto più interessato ad ingrassare la propria conventicola che al benessere comune; oppure, nell’ambito pubblico, molto più attento a pararsi i bassi organi da responsabilità indesiderate. Responsabilità che questi signori han capito di avere nel momento in cui son venuti loro riconosciuti gli indennizzi relativi. In pratica, vengono pagati per responsabilità che tentano in ogni modo di evitare.
Nel primo caso sto parlando delle categorie professionali, degli ordini e dei collegi, una eredità fascista [1] come tante ancora vive e vegete nell’italia repubblicana. Strano che i nostalgici non la citino mai fra le cose “buone” fatte dal fascismo.
Credo, anzi, che la struttura statale, quella dei ministeri e del potere sia centrale che periferico, mutuato pari pari dalle regioni, e la classe dirigente che la governa siano derivati diretti d’un sistema di potere ancora imbastito sull’assoluta superiorità dello Stato, come quello fascista, inteso come entità superiore da cui far discendere in forma organizzata istituzioni intermedie, come mostri mitologici della tradizione classica per metà uomini e per metà numi, capaci di pretendere un vantaggio sociale grazie a questo privilegio. Un privilegio tale da consentire loro, che si definiscono “servi dello Stato” quando nessuno deve sentirsi servo di niente e di nessuno, di imporre loro stessi alla società il loro contributo, senza che sia la società a richiederlo come necessario.
Nel secondo caso parlo della classe boiarda, fatta di dirigenti e funzionari della pubblica amministrazione, che vivono un mondo loro, con un loro linguaggio, spesso sgrammaticato ma criptico, sempre col culo al caldo, in qualsiasi situazione, con la loro logica, che definiscono giuridica, sempre più estranea alla sensibilità comune e alla razionalità di quegli eventi che suggeriscono i comportamenti del quotidiano. [2]
Viviamo in un contesto che definiamo democratico ma che nel profondo non lo è, perché tutto ciò che interagisce concretamente con la nostra vita cala dall’alto, da un sistema autoreferenziale che parla una sua lingua, fatta di atti, decreti, protocolli e quanto serve a dare equilibrio ad un organo di comando, non di governo, al quale tutte le forza politiche vogliono accedere e per le quali lottano e chiedono consenso popolare.
In questa condizione, l’unico interesse per la politica è l’acquisizione del consenso, unico in grado di dare accesso al sistema superiore rappresentato dalla pachidermica macchina burocratica, vera padrona del paese.

Ora la domanda è la seguente.
L’arrivo di questa pandemia cambierà qualcosa nel nostro mondo di architetti?
Tralascio di parlare della dimensione profetica di certe affermazioni, di titolati architetti nostrani che, mi pare, rincorrano le strategie del marketing invece del buon senso; oppure del cattivo senso, quello che radicalizza le considerazioni e le costringe a pensieri realmente nuovi.
Io non credo che cambierà qualcosa se continuerà a prodursi la catena di comando che dalle università italiane scende sugli ordini, entra nei ministeri e arriva negli uffici dove si scrivono le leggi. Se non subirà una rivoluzione radicale, tutto il sistema culturale portante, rigido e verticistico, fondato sull’autorità dei titoli di studio, sistema che ha fallito più volte costringendo il mondo in gravi crisi finanziarie o sanitarie, dovrà subire altri attacchi alla sua credibilità, lasciando spazio a qualsiasi bizzarria scientifica o culturale capace di sedurre la persone deluse.
La scienza, e tutto l’apparato universitario che prospera nella sua galassia, non ha più l’autorità di imporre come assolutamente vere le proprie visioni. Oppure, con una considerazione molto più raffinata, popperiana, non può non mettere a prova le sue certezze, ricordando che le sue verità sono vere sino a prova contraria e fino al tempo nel quale una verità più completa può sostituirla. Ma affinché questo succeda occorre che le diverse anime che costruiscono la conoscenza possano avere libertà e autonomia, fuori da un impianto culturale unico e soggetto all’autorità degli Stati e al nepotismo dei sacerdoti. Abbiamo assistito ultimamente alla dimostrazione di quanto ci sia conflitto nelle stesse chiese. Virologi di fama mondiale che han detto uno il contrario dell’altro, contraddicendosi e screditandosi a vicenda, duellando a colpi di pedegree, pezzi di carta che dovrebbero sostituire la capacità almeno d’avere rispetto delle situazioni tragiche. La vanità umana è un vizio diffuso e tenace, molto più radicato tra coloro che hanno la presunzione della conoscenza, nei quali i pregiudizi hanno una solidità certificata da un’istituzione e, per questo, difficili da combattere.
La responsabilità delle scuole nel generare pregiudizi robusti è quindi seria e molto pericolosa.
Per questa ragione non può esistere una sola fonte di giudizio e d’insegnamento, e non può una sola istituzione avere in modo esclusivo e autoritario il monopolio della conoscenza e della certificazione.
Sarebbe bene, quindi, che non esistessero ordini e collegi coattivi, ormai sterili contenitori di visioni eterogenee e contrastanti, per far posto alla libera concorrenza di varie associazioni culturali, capaci di formazione e promozione della propria scienza e dei propri valori.
Occorrerebbe togliere ogni valore legale alle lauree, affinché diventino riconoscimento di un percorso di studi personale, non unico, parte del proprio bagaglio formativo che, insieme ad altri, potrebbe arricchire la conoscenza e le capacità professionali delle persone, senza creare privilegio sociale o economico garantito, e senza dotarle d’un anacronistico titolo accademico non dissimile nel suo senso dai titoli nobiliari dei vecchi regimi.
Per quanto riguarda la paranoia normativa, per porre un freno al suo prosperare, basterebbe semplicemente porre il costo delle pratiche autorizzative, tranne quelle direttamente inerenti ai lavori da eseguire, a carico dell’amministrazione che le richiede. Credo che tutto il sistema parassitario che attualmente si alimenta dal mercato immobiliare, peraltro spompato perché già particolarmente colpito dalla crisi finanziaria, ne verrebbe considerevolmente ridimensionato.
Serve, insomma, una rivoluzione radicale.

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Note:
[1] «Tra quelle leggi c’è la n. 897 del 25 aprile 1938 con la quale veniva stabilito che “Possono esercitare la professionale solo gli iscritti ai rispettivi Albi provinciali(una condizione che non c’è nelle leggi istitutive degli Ordini del 1923).Non possono essere iscritti e, se iscritti, devono essere cancellati coloro che non siano di specchiata condotta morale, civile e politica”.
Questa legge non è stata abolita dal Parlamento repubblicano: è ancora vigente anche se non applicabile perché tutti i laureati che intendono svolgere attività professionale (compresi gli ebrei, gli omosessuali e gli antifascisti, ovviamente) si devono iscrivere agli Ordini provinciali, dopo aver superato l’esame di Stato.
Non è stata abolita perché tutti i partiti sono succubi dei Consigli degli Ordini (potentissimi quelli degli avvocati e degli ingegneri che mandano in Parlamento molti loro rappresentanti) che sono terrorizzati dalla soppressione della obbligatorietà della iscrizione agli Albi… Perché tutti si cancellerebbero. Anche per non pagare una tassa esosa.
Ha scritto Luigi Einaudi“ Non necessariamente bisogna abolire gli Ordini, basta non renderne obbligatoria la iscrizione. Potrebbero rimanere per coloro che li considerano di una certa utilità”.E con Einaudi si dichiararono d’accordo Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Marco Pannella, Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Indro Montanelli. E tantissimi altri».
Tratto da Agenzia Radicale – Gerardo Mazziotti



[2] «…l’uniformità del comportamento imposta ai funzionari genera un atteggiamento ritualistico in cui norme e procedure vengono “santificate”. Merton propone il termine di ritualismo per denotare appunto l’atteggiamento di chi pone al primo posto nella scala dei valori la fedeltà fine a se stessa alle norme perdendo di vista i fini reali dell’organizzazione. Il ritualismo, a sua volta, si traduce in rigidità che rende difficile per l’organizzazione rispondere ed adattarsi a situazioni ed esigenze particolari. “In questo modo proprio le condizioni che normalmente portano all’efficienza in situazioni particolari e specifiche producono inefficienze … Le regole diventano ad un certo punto simboliche piuttosto che strettamente utilitarie“. Si deve, altresì, tener conto del fatto che l’organizzazione burocratica, come sistema chiuso, opera con un regime giuridico dotato di particolare forza e valore formale: un sistema organizzativo siffatto ha come caratteristica principale la rigidità e non può in alcun modo adattarsi al mutamento, tendendo al contrario a resistere ad ogni cambiamento e trasformazione».
Tratto da “Le patologie della burocrazia nell’analisi post-weberiana di Robert King Merton”

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