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Storia e Critica

L’anello di Policrate

Policrate era famoso per la sua proverbiale ricchezza e per la sua fortuna. Ritenendo che un uomo troppo fortunato prima o poi sarebbe stato colpito da una grave sventura, Amasis, faraone d’Egitto, chiese a Policrate di rinunciare a qualcosa di veramente prezioso in modo che tale perdita rappresentasse una grande sventura e ne scongiurasse una peggiore. Policrate decise perciò di privarsi di un anello preziosissimo cui era molto affezionato e lo gettò in mare. Tempo dopo, un pescatore pescò un pesce di dimensioni notevoli e decise di farne dono a Policrate, ma mentre i cuochi lo cucinavano ritrovarono nella sua pancia l’anello che il tiranno aveva gettato in mare. Quando Amasis seppe che Policrate era riuscito a recuperare l’anello capì che egli era un uomo troppo fortunato e che prima o poi sarebbe stato colpito da una grave disgrazia; non volendo essere travolto anch’egli nella rovina di Policrate, ruppe l’alleanza.
(fonte wikipedia , Policrate)

Gli anelli segnano sempre un destino. Hanno un alto valore simbolico e, per questo, stanno nella storia dell’uomo fin dall’età minoica, circa 4700 anni fa.
Usati come sigillo, prevalentemente dagli uomini, con gli egizi divennero un segno dell’autorità di un potente. Usati nella Roma antica nei fidanzamenti e nei matrimoni avevano l’autorità d’un vincolo di stabilità. Li s’infilava nel dito anulare poiché si credeva che la vena che lo percorreva andasse direttamente al cuore.

“Anelli speciali venivano donati dai Re ai loro dignitari o vassalli, come pubblico riconoscimento di fiducia accordata; anelli intesi come pegni affettivi venivano scambiati fra amici o parenti e di solito erano fatti di capelli intrecciati; altri, quelli sormontati da stemmi familiari, venivano tramandati da padre in figlio come segno di autorità da capofamiglia.
Dai Bizantini in poi l’anello divenne comune a tutti, uomini e donne, e inteso soprattutto come vezzo prezioso; nel Rinascimento vi fu un vero boom delle pietre preziose, e l’anello tondo e nudo divenne solo il cerchietto su cui incastonarle.
La Chiesa e i Governi tentarono in ogni modo di porre freno a tale esibizione sfacciata della ricchezza tramite apposite Leggi Suntuarie:
“Non si possino portare a ogni dito più di tre anella, e detta anella non possino avere più che una pietra preziosa o perla per mano…”.
Ma fu inutile; le mani sfoggiavano anelli su tutte le dita, infilati uno sull’altro sino allafalange superiore.
Anche gli altissimi prelati non disdegnavano tale usanza; Giuliano della Rovere, alias papa Giulio II, nel celebre ritratto opera di Raffaello Sanzio, esibisce sulle mani ben seianelli.
E nel Seicento, visto che le dita non bastavano, i nobili porporati –seguendo una moda lanciata da Luigi XIV- gli anelli se li cucivano anche sulle vesti.
Oggi i vescovi indossano solo un anello, detto episcopale o prelatizio; mentre quello del Papa si chiama ”piscatorio” (del pescatore), che funge anche da sigillo da apporre su atti e documenti di particolare importanza.
Sopra vi è raffigurata l’immagine di San Pietro che su una barca tende le reti (“ti farò pescatore di anime”), attorno vi è inciso il nome del pontefice: e quando il Papa muore, questo anello viene distrutto a martellate e sepolto con lui.”
(tratto dal blog di Mitì Vigliero)
Oggi gli anelli hanno perso molto delle prerogative del passato ma hanno mantenuto una caratteristica particolare: devono essere preziosi, come l’anello di Policrate.

Ho fatto questa lunga premessa e questa ricerca perché oggi gli anelli, come altri strumenti decorativi del corpo, fanno parte di quella categoria di oggetti che chiamiamo comunemente oggetti di design.
Si pensi ad architetti come Zaha Hadid e Odile Decq, con le loro mani esibite come architetture; oppure alle architetture montate su anelli di Philippe Tournaire, gioielliere di Parigi, al 7 di Place Vendôme. Pare che l’origine di questi gioielli risalga all’età merovingia, circa nella metà del quinto secolo, indossati all’epoca dalle donne dell’alta aristocrazia.
Ebbene, appartenendo di fatto ad una categoria che implicitamente cita le opere di architettura, questi anelli suggeriscono una sorta di bizzarria intellettuale che li fa irrompere tra gli oggetti di design più curiosi e intriganti.
La curiosità riguarda la ragione per cui oggetti di decoro della persona dovrebbero occupare anche lo spazio di altri, che la tradizione moderna vorrebbe a servizio d’una funzione pratica ed estetica indissolubilmente connesse.
L’intrigo riguarda il modo con il quale un oggetto fortemente simbolico e tradizionalmente pregiato possa interagire con la vocazione del design attuale, orientata verso una comunicazione essenziale e matericamente scarna.

Sulla prima questione relativa alla curiosità si può affermare tranquillamente che il superamento della funzione pratica, ergonomica o fisiologica, ha da tempo lasciato spazio ad un concetto più vasto e complesso, che fa riferimento alla dimensione antropologica e sociologica della convivenza e che può essere compresa nel concetto moderno di cultura.
Sulla seconda questione, relativa alla dimensione simbolica, ho recentemente scoperto, grazie all’iniziativa del fuori salone nell’appartamento LAGO di Milano Brera, gli anelli di una giovane designer che si chiama Raena Farahbod.
Sono anelli costruiti in lana. Un contenitore inusuale nel quale sono alloggiati vetri ed oggetti colorati. La descrizione simbolica, secondo quanto afferma l’autrice, fa riferimento agli strumenti del concepimento, una sorta di utero o corolla disposti ad accogliere il seme maschile. Un simbolismo schietto ma allo stesso tempo estremamente garbato, universalmente condiviso, lontano anni luce da riferimenti al potere, alla ricchezza o alla solennità di una promessa. Un simbolismo semplice e delicato che dichiara la profonda sensibilità dell’autrice.
Ciò che mi ha fatto riflettere, in particolare, è la dimensione poetica che un oggetto decorativo può realizzare semplicemente ponendosi in un modo spontaneamente inusuale. Usare la lana, materiale autenticamente popolare che risale all’esordio della civiltà, con la stessa dignità d’un diamante, è segno d’una indubbia attitudine alla poesia.
Poesia che dovrebbe governare il processo artistico che sta dietro ogni forma di espressione figurativa, senza distinzioni tra l’utile e il dilettevole, deriva intellettuale di quella faziosa classificazione che vuole le arti distinte per pretesti e argomenti, dimenticandone la qualità essenziale.

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