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Storia e Critica

Un anno difficile

Il 2010 sta per finire.
Un anno difficile, principalmente per la crisi economica che ha costretto tutti noi a rivedere la nostra situazione professionale da una prospettiva molto più stretta, creativamente inaridita dalle difficoltà contingenti e quindi difficile da tradurre in progetti capaci d’immaginare un futuro a lieto fine. La paura, il disagio e le difficoltà collettive non aiutano la buona architettura perché minacciano i buoni propositi con cui questa dovrebbe prodursi. Ho un presentimento. Vedrete che, in virtù d’un’auspicata sobrietà, si rinnoverà l’invito alla semplificazione formale, più accomodante e sedativa del malessere generale, da attuare con il ricorso al solito bignamino delle tipologie nazionalistiche e regionali.
Ma le crisi sono anche il miglior modo per riflettere sulle proprie convinzioni e sul modo che, una certa abitudine di pensiero, ci fa giudicare il più adeguato al tempo che viviamo. Così è per chi ha condiviso con successo ed entusiasmo gli ultimi anni d’euforia architettonica; ma lo è anche per coloro che l’hanno avversata giudicandola scaduta in un più generale decadimento dei valori sociali.
La riflessione che propongo è quindi questa.
Al netto dell’entusiasmo, ci rimane di questi anni d’ottimismo, forse mal riposto, una ricerca linguistica e formale che non ha precedenti nella storia dell’architettura. Mai lo spazio ha trovato, nei secoli precedenti, una tale libertà espressiva così diffusamente condivisa; e le libertà, una volta conquistate, vanno sì difese, ma diventano irrinunciabile patrimonio collettivo.
Spesso le critiche più aspre rivolte a questa libertà riguardano la mancanza di proposito etico dei loro autori. Questa libertà viene intesa come eccessiva rispetto a presunti limiti oggettivi che dovrebbero concernere il fare architettonico. Una sorta di ontologia – che è qualità oggettiva dell’essere – che dovrebbe riguardare l’architettura, come spesso ha scritto e sostenuto più volte Vittorio Gregotti, autorevole censore di questa libertà formale.
Bene, ad esser sincero io credo poco alla responsabilità etica degli architetti. Gli effetti pratici dell’architettura sulla complessa società attuale sono, nel bene e nel male, pressoché irrilevanti.
Infatti, dal punto di vista morale dell’architettura, non si vive meglio in case migliori e peggio in quelle peggiori. Ci sono persone di grande valore che provengono dalle peggiori periferie e spietati assassini cresciuti in case stupende. Per cui non è assolutamente vero che nei posti architettonicamente migliori ci viva la gente migliore. Anzi, spesso è certo il contrario. Quest’illusione, in particolare, è stata l’ideologia maestra del secolo scorso, che ha rischiato di soffocare la modernità sotto il peso del pregiudizio neo-razionalista da un lato e post-modernista dall’altro. Quindi non caricherei più gli architetti d’una responsabilità che non possono avere ed è molto meglio evitare.
Io credo, invece e più semplicemente, in un’etica della responsabilità, dove all’architetto viene chiesto di fare semplicemente l’architetto, di farsi carico dell’architettura che sta costruendo e non di tutta l’umanità e dei suoi guai. Sono certo che ogni architetto potrà assumersi questa responsabilità limitata ma sostanziale, ne sarà felice e ne gioverà sicuramente la qualità spaziale delle sue architetture.
Fare l’architetto, infatti, significa principalmente, e apparentemente molto modestamente, occuparsi di spazio, della sua scrittura e della possibilità di questo di liberarsi di regole e precetti arcaici, poco rappresentativi del nostro tempo, della nostra cultura e della nostra esperienza di vita. Un compito alto, che spetta solo alle più virtuose attività d’un uomo. Io credo che un’architettura, la cui ricerca porti ad una scrittura raffinata e libera, ci renda sicuramente più ricchi perché più liberi. Più liberi soprattutto perché più tolleranti, perché la libertà degli altri è l’unica garanzia della nostra e del benessere che ne consegue.
Questo, in fondo, dovrebbe essere il compito principale dell’architettura: contribuire alla formazione della nostra coscienza esistenziale e sociale, che indiscutibilmente ha necessità di un contesto spaziale, quindi architettonico, nel quale agire, confrontarsi ed esprimersi al massimo livello di civiltà.
Questa, in breve, è la mia riflessione. A voi proporre la vostra che, sono sicuro, sarà all’altezza dei propositi che risolutamente vorremmo esprimere per il nuovo anno che verrà.
Altezza di sentimenti e di pensiero che ha sempre contraddistinto gli interventi di un nostro grande amico, Giannino Cusano, che ci ha lasciati improvvisamente nel mese di luglio di quest’anno, del quale pubblicheremo prossimamente un testo inedito che ci ha gentilmente inviato Cristina Caretta, sua compagna di vita e di lavoro, alla quale va tutto il nostro ringraziamento.
Buon anno a tutti.

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