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La Vie en Rosa

Coppe e medaglie: a Cesare quel che è di Cesare

Hanno dato una medaglia al professor Nicolin.
Una medaglia al valor critico.
D’oro.
La cosa sta bene a tutti. Quando piove sul bagnato nessuno ci fa caso. I problemi nascono quando piove dove non ha mai piovuto. Allora si va alla ricerca del mago della pioggia che non s’è fatti i cazzi suoi.
Così fioccano le lamentele per una menzione (una menzione!) a Marco Brizzi: minchia, ma come si permettono, ma non esiste, ma non si fa, eccheccazzo le menzioni per le medaglie non si danno mica così.
La patacca al professore, viceversa, era lì dalla notte dei tempi, un evento ampiamente previsto, consegue alla feluca come il giorno alla notte.
Ma come! Tutti appresso a Brizzi e nemmeno uno che si prenda cura del medagliere del povero professor Nicolin. Mi sono detto: “Non è giusto, anche lui è figlio di dio, bisogna pure che qualcuno lo accudisca”.
Eccomi.
Perché, signori miei che v’indignate virtuosamente per una menzione all’outsider, io ne convengo: abbiamo invece qui un critico d’architettura, e un professore, coi fiocchi. Se uno è nato ordinario e direttore di Lotus (non si ricorda un’era geologica in cui il professor Nicolin non fosse tale…) è evidente che se lo merita. Non solo, ma che si merita tutte le onorificenze e i baci sulla fronte che la musa gli vorrà dare, da qui all’eternità.
Anzi le muse: Euterpe, ma anche Calliope e, perché no, Tersicore.
Uno che, quando scrive pare che danzi suonando e suoni danzando, declama coi piedi e danza con l’ugola, un canto vivente all’architettura. Quando scrive gli angeli s’incantano e restano così: chiappette per aria e monocolo tra le dita.
Io, per la verità, non lo seguo più da un pezzo nei suoi percorsi critici. Troppo raffinato per i miei gusti.
Però ogni tanto mi sovviene che anch’io ci ho un passato da cultore della materia.
E allora ci penso e mi dico: porco mondo! Il professor Nicolin me lo ricordo!
Una volta, quand’ero architetto, mi appuntavo le cose che scriveva. Roba di quindici anni fa, certo, quando, riferendosi all’opera di quell’altro mitico professore dell’architettura, pluridecorato anch’egli ma rispondente per avventura ad altro nome (e precisamente a quello di Gregotti Vittorio) il professor Nicolin scriveva senza batter ciglio “…una scelta plastica di vago sapore berlaghiano in cui affiorano le originarie passioni gregottiane per i pevsneriani pionieri del moderno…” (Lotus 61 pag. 27)
Ora vi prego di fare attenzione: percepite le allitterazioni che rimbombano da un capo all’altro di questa bronzea incisione critica?
Bene, esse fornivano già allora la tonante prova che, per il professor Nicolin, la prosa italiana non aveva nascondigli né vie di scampo; la fiutava, la braccava e infine la scovava con meticolosità venatoria ovunque essa si rifugiasse.
Era, ai tempi, un critico da caccia. Con questo pedigree volete negargli la medaglia?
La potenza dei suoi costrutti sintattici, inoltre, lasciava il segno: devo ammettere che da allora in avanti il sapore berlaghiano, le originarie passioni gregottiane e i pevsneriani pionieri del moderno deambularono assieme, nella mia immaginazione, come i re magi. Assortirli, per il trimestrale talento letterario del professor Nicolin, fu certamente uno scherzo da bambini, io invece, ancor oggi, triangolo alla disperata tra quegli scampanellanti aggettivi in preda a panico da disorientamento. Come l’impallinato nella notte.
Sono cose che lasciano il segno.
Oppure, da vero autopodista, così il nostro professore prestipedava, per esempio, intorno all’architettura sacra: “Ponendoci alla ricerca di un territorio del sacro osserviamo il vagare del nostro sguardo di fronte ai fenomeni di secolarizzazione.” ( Lotus 65 pag.5)
Vedete? Il professor Nicolin fu (è e sarà) tra i direttori di giornali, uno dei più lungimiranti. Lo fu (è, sarà) a tal punto da riuscire, nel contempo, a lasciare vagare lo sguardo e, in uno sconvolgimento parossistico di strabismo, ad osservare il medesimo che vaga. Così egli fu (è, sarà) uno dei pochi professori al mondo ad avere il passo più lungo della gamba; proprio per questo rimane perennemente impegnato a rincorrere se stesso senza mai riuscire a raggiungersi.
Di tale forsennato autopodismo il giornale da lui condotto ha dato sempre atto con semplicità e costanza, presentando sempre, per così dire, il sedere a se stesso: così, del suo corpo, non conosce altro che questo. Però lo conosce assai bene e non smette di argomentarne per filo e per segno figurandoselo come una delle meraviglie del mondo, per cui ogni tre mesi possiamo osservare magnifici reportage fotografici che lo presentano in posizioni di varia arrendevolezza ed in stato di crescente obesità. Tutto quel che esula da codesto corpulento gravame fa parte dell’inconoscibile. Ma si sa: non si può dar atto di tutto, bisogna operare delle scelte, per quanto dolorose.
Perciò questo giornale ha deciso di circoscrivere molto scientificamente il proprio campo d’indagine limitandosi una volta per tutte ad osservare il suo sguardo che vaga. Nel territorio, naturalmente. Ma per incidente l’orizzonte è occupato dall’opulenta massa di cui sopra, così non gli resta che prendere atto di quella plumbea presenza.
Con la qual cosa può senz’altro ritenere di aver svolto diligentemente il suo compito critico.
Ma ricordo d’aver colto anche, a suo tempo, fiorellini come questo:
“Non si può vedere in questo svanire delle figure forti del padre e della madre un diluirsi anche dell’oggetto architettonico, non più così definito sul suo stesso piano ontologico?…Quante volte noi architetti abbiamo reagito sovrapponendo a questi condizionamenti un apporto più o meno esplicito o segreto e introducendo aspetti quasi privati nell’immagine architettonica? Altre volte forse abbiamo guardato il problema con un occhio diverso, architettonico, cercando altri più autonomi livelli, ad esempio riconducendo il progetto a tematiche architettoniche al fine di tradurre gli aspetti pragmatici di partenza (che spesso riguardano anche l’immagine) entro uno svolgimento disciplinare.” (Lotus 70 pag. 111).
Questo telegramma trascende la lettera (se mi è consentito il gioco di parole), per attingere “altri, più autonomi livelli”. E nel suo dorato recinto scattano, per rispondere all’appello, contemporaneamente: Lo Psicanalista, Il Filosofo, e L’Architetto, tutti impegnati fino in fondo nell’esaustiva esplorazione di un qualche Specifico Disciplinare.
Piano ortogonale e piano ontologico s’intrecciano instancabilmente sotto l’occhio architettonico che guarda il problema riconducendo la tematica alla pragmatica di partenza.
Ad uno che scrive così vanno assegnate carrettate di medaglie.
Anzi, avanzerei una modesta proposta: diamogli il cavalierato, così sta in buona compagnia.
E poi, parliamoci chiaro, l’attività critica del professor Nicolin si è dipanata nel corso degli ultimi trent’anni contribuendo a portare la cultura architettonica d’Italia al punto in cui si trova adesso.
E’ forse poco?
Ma almeno una coppicina, in aggiunta, gliela vogliamo dare?
I nostri complimenti, dunque, al professore: confido in foto autografa con medaglia d’oro appuntata al petto, la spedisca pure al mio indirizzo, provvederò a diffonderla.
E a Marco Brizzi, se me lo permette, un invito a rassegnarsi: fino a quando ci saranno questi monumenti equestri in circolazione lui mangerà la polvere. Ma che pretende? Di prendere una menzione senza averci il pedigree? Ma siamo matti? In fondo ha solo dato spazio a qualche mezza tacca che scrive d’architettura per spasso (parlo del sottoscritto, nessuno s’offenda), mica ai professoroni “della comunità scientifica” che, con fatica, dolore, sangue sudore e lacrime, partoriscono a puntate, pensieri e profezie sull’architettura di ieri, di oggi e di domani sui giornaloni e sulle gazzette. Perché alla fine, nonostante le chiacchiere sui nuovi media, “carta canta” e sul web ci scrivono solo i mentecatti…


(Ugo Rosa – 9/5/2003)

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