Il libro di Ibelings è uscito in Inglese nel 1998. Tre anni fa. Quasi in un’altra epoca, se consideriamo la velocità prodigiosa con la quale gli avvenimenti si susseguono.
Per carità non voglio dire che il libro sia datato. Supermodernism merita la ottima traduzione di Michele Costanzo ed è un libro che deve essere letto anche oggi. E per almeno altri dieci anni.
Voglio solo dire che tre anni fa il libro ha avuto il merito di dire con un certo anticipo molte cose, che forse oggi appaiono più condivisibili, più ragionevoli, meno nuove e originali di quanto lo siano state quando era fresco di stampa.
Merito di Supermodernism è stato di attaccare il decostruttivismo e il postmodernismo. Trovando tra i due fenomeni almeno quattro punti di contatto.
Che giustamente deride, mettendoli in crisi.
1. Vi è innanzitutto la pretesa degli architetti di fare filosofia. Ma Derrida è stato insolentito da Eisenman a seguito di un lavoro comune, e alla fine lo ha accusato di wagnerismo. Lyotard ha diffidato gli architetti a usare il termine postmoderno. Heidegger si rivolta nella tomba a furia di sentire sproloqui sull’abitare fatti da un Gregotti diventato fenomenologo. Merleau Ponty giura dall’oltre tomba di non aver nulla a che spartire con l’architettura di Steven Holl. E il povero Deleuze ha garantito che non adopererà più il termine di piega, promettendolo all’anima di Guattari, che già si era pentito di aver usato il termine Rizoma. Sembra dire Ibelings: cari architetti, e soprattutto voi decostruttivisti impenitenti, fate architettura e non filosofia sbirciando libri che non conoscete e problematiche che non padroneggiate.
2. Vi è poi il difetto di utilizzare l’architettura per mettere in scena discorsi. Rappresentare problemi. Il mondo va male? Facciamolo vedere con forme sghembe. L’uomo è scisso: teatralizziamolo con una bella frammentazione di putrelle. Altro che metafore. Spesso si cade nelle allegorie più trite. L’architettura, sostiene Ibelings, non rappresenta i problemi ma li deve risolvere. Che è ben altra cosa. Guai a scambiare la nostra arte per una arte del lamento.
3. Un terzo problema è l’eccessiva importanza data ai termini di luogo e di contesto. Risolti folcloristicamente. Come è il caso del postmoderno che raccoglie citazioni e spezzoni dell’esistente riunendoli in collage. Oppure in termini intellettualistici, oscuri e modaioli. E’ il caso di Eisenman che inventa stratificazioni inesistenti e su queste tracce arbitrarie costruisce architetture che sono tanto più affascinanti quanto più cervellotiche. Costruire uno spazio che ci delocalizza e che ci guarda, propone Eisenman in un articolo recente. Che vorrà dire? Soprattutto che vorrà dire: lo spazio che ci guarda?
4. Vi è infine l’eccessivo spazio dato alla firma. Al logo. Allo Star System. Un romanticismo del gesto che dovrebbe farci vergognare. Soprattutto quando il ricorso alla grande firma è lo stratagemma furbetto per by-passare la soluzione del problema. Vogliamo far digerire la speculazione su un’area di delicato valore ambientale? Chiamiamo Renzo Piano. Vogliamo risolvere il problema di una piazza senza averne fatto il piano? Chiamiamo Richard Meier. Per carità io sono per costruire subito l’Ara Pacis secondo il progetto, per la verità un po’ sciatto, del bravissimo americano. Sono contro Sgarbi per principio. E gli chiedo di non maltrattare Gregotti facendolo diventare un eroe, perché Gregotti è nostro, lo abbiamo contrastato per anni e, adesso che finalmente lo abbiamo messo da parte, lo vogliamo seppellire noi. Ma, detto questo, non posso non notare che a Roma prima hanno fatto il progetto per lo scatolone e poi faranno quello per la piazza.
Ecco quattro punti per i quali vale la pena comperare il libro di Ibelings. E se non vi bastano questi quattro, di alto valore polemico, ve ne cito due di carattere critico, più propositivi.
1. Il libro affronta il tema della globalizzazione senza tabù. Senza il cretinismo no global che è simile al cretinismo ecologista. Fatto cioè di persone che al posto di andare da Mc Donald vanno alle trattorie Little Italy dove ti danno la pasta precotta riscaldata al microonde e te la fanno passare per fatta da nonna Giulia. Così ti fanno anche pagare il doppio. Ibelings capisce che l’omogeneizzazione dei comportamenti e quindi del’architettura è un dato di fatto e cerca di farci i conti. Sapendo benissimo che il Regionalismo critico proposto da Frampton è spesso simile alla pasta precotta e riscaldata al micro-onde di cui prima. Solo un olandese poteva fare con tanto coraggio questa affermazione. Anche perché sa di stare in compagnia di Koolhaas, MVRDV, West8, van Berkel. Insomma di gente che l’architettura della globalizzazione la fa sul serio. Introducendo in questo termine la multiculturalità e, a volte, anche la multietnicità, cioè i modi diversi di uso dello spazio che le nostre complesse società impongono.
2. La seconda intuizione è che, dopo l’orgia decostruttivista, ci muoviamo verso un periodo dominato dal minimalismo. Mies ritorna alla ribalta. E’ un bene? E’ un male? Io credo che possa essere un bene, ma solo a condizione che la voglia di riduzione formale non si risolva in un fatto esclusivamente stilistico. Per capirci il minimal che oggi gira sulle riviste di moda o la riduzione che, invece che le forme, riduce i problemi.
E così parto ad affrontare alcuni punti di Supermodernism in cui Ibelings mi lascia perplesso. Dicevo che è stato scritto nel 1998 quando c’era già Bilbao e il museo di Berlino. Quando alcuni personaggi che noi etichettiamo come decostruttivisti avevano dato il meglio di sé. E avevano dimostrato in modo definitivo che, se la complessità si padroneggia, è di gran lunga migliore della semplicità.
E poi devo dire che non credo che il decostruttivismo si possa mettere sullo stesso piano del Post Modern, come mi sembra che Ibelings faccia.
Certo, dietro il decostruttivismo, si nascondono fenomeni deteriori. Non ultima l’ombra di Philip Johnson: padrino di entrambi i movimenti. E i punti di contatto, come abbiamo appena riconosciuto, ci sono e sono preoccupanti.
Ma, come è avvenuto con il neoplasticismo ai primi del 900, il decostruttivismo alla fine del secolo ha avuto il merito storico di azzerare, smontare, rimettere in discussione lo spazio che gli era stato consegnato. Nel nostro caso che gli era stato consegnato dal Post Modern e dalle moribonde poetiche dei Grassi, dei Rossi, dei Krier, dei Gregotti, dei Portoghesi, dei Graves. E così facendo ha prodotto non solo ottimi lavori ma soprattutto ha aperto le strade a nuove sperimentazioni. Anche a quelle informatiche.
Non è un caso che molti dei protagonisti del libro di Ibelings siano dovuti passare attraverso tale processo di autoanalisi.
La storia si ripete. Torniamo alla analogia con il neoplasticismo. Mies ne vive in pieno la poetica e le sue opere migliori, quali il padiglione di Barcellona, sono quelle in cui i piani, pur ricuciti in unità, neoplasticamente si articolano nello spazio. Quando Mies si affrancherà del tutto da Mondrian, Rietveld e Van Doesburg, perderà in forza e acquisterà in accademismo monumentale.
Ecco: la mia paura è che il Supermodernism, senza un po’ di sale, diventi un piatto sciapo. A, Ibelings, che è bravissimo, l’onere di mostrarci che così non è.
(Luigi Prestinenza Puglisi – 6/12/2001)